IL NOME DELLA MERCE: LA PUBBLICITA' SI MOSTRA

 

L’immagine del prodotto: il packaging

La confezione come racconto

Parola e immagine

Conclusioni

 

 

 

 

      Negli ultimi anni l'innesto sempre più massiccio dei segni iconici ha fatto sì che nel messaggio pubblicitario il registro visivo finisse con il prevalere nei confronti del registro verbale.

      Da un lato abbiamo, come oggetto di indagine, delle vaste configurazioni semantiche che incominciano ad interessarci a livello degli iconogrammi; dall’altro si possono elaborare definizioni di una possibile retorica visiva.

      Si tratta in altre parole di indagare i codici iconografici, i linguaggi del gusto, degli stili e delle sensibilità visivi che, associati ai riferimenti insiti nel nome del prodotto, contribuiscono a crearne l’immagine. Scelto il nome, la strategia pubblicitaria si sviluppa nel senso della sua espressione grafica: questa permetterà di canalizzare il rinvio semiotico del marchio industriale anche mediante la scelta del logotipo, che può produrre effetti di senso in grado di aumentare l’impatto del nome stesso.

      Ai sensi figurali di tipo iconico si affianca una serie di relazioni extra-linguistiche connesse alla pura percezione visiva, per cui il logotipo del nome viene ad assumere una maggiore o minor pertinenza in relazione ai contrasti cromatici, ai primi piani e agli sfondi, al corpo stesso del carattere scelto.

      I codici iconici – immagini, suoni, rumori, colori – sono chiamati anche codici analogici, dal momento che in essi gli elementi significativi hanno sempre una analogia con le "cose" l’immagine con l’oggetto, il suono riprodotto con il suono originario. Esistono varie forme e diversi gradi di iconicità:

      se si prende il caso dell’immagine […] si può affermare che in ogni immagine esistono vari gradi e vari tipi di analogia legati a stilizzazioni che a loro volta hanno a che fare con la cultura del paese e con la struttura del mezzo riproduttore.

      L’immagine pubblicitaria ha trovato uno dei suoi primi chiosatori in Barthes, il quale ipotizza che in essa si possano rintracciare figure significanti comuni alla pittura, al racconto e al sogno; tali figure, o "miti" culturali, si organizzano a formare "mitologie" il cui principio unificante è la natura ideologica. Ciò che il fruitore di messaggi assimila, afferma Barthes, è il messaggio letterale e insieme quello culturale, quello ideologico e quello etico, e in tale meccanismo risiede la forza dell’immagine di massa. La dimensione dell’immagine assume dunque un peso decisivo nella comunicazione in generale; in ambito pubblicitario essa risulta strettamente correlata agli altri codici comunicativi in ogni tappa del processo creativo.

      Anche la nomenclatura dei prodotti industriali si basa sulla prevalente associazione visiva:

      la scelta dei caratteri tipografici, talora anche la riproduzione d’una firma (per esempio Liebig o Gillette), la presenza d’un emblema figurato, d’un marchio, fa corpo inscindibile col nome, ne costituisce per così dire il vero ‘significato’. Nell’etichetta, nell’insegna, nel marchio di fabbrica, l’elemento linguistico è dunque intimamente legato con quello visivo o tattile, extra-linguistico".

      Se la tecnica di naming è finalizzata a innescare un processo comunicativo che pone in relazione il prodotto con il destinatario, essa ha anche la fondamentale funzione di orientare l’identità e l’immagine annesse alla merce verso i desideri, i bisogni indotti o meno, le richieste della collettività; il naming è quindi uno strumento diretto all’interpretazione delle aspettative degli acquirenti anche in senso culturale mediante la produzione di simboli, oltre che linguistici e verbali, iconici e grafici. Il nome attribuisce al prodotto una veste di singolarità e di specificità che deve fare propri, e al tempo stesso proporre al pubblico, un insieme di riferimenti culturali entro cui inserire il messaggio pubblicitario:

      progettare un nome […] vuol dire progettare il suo destino, dal mittente al destinatario, coinvolgendo marchio e immagine aziendale e canalizzandone i sensi interpretativi; ma vuol dire anche delineare l’immagine del prodotto e quindi il suo funzionamento e la sua ricezione nella cultura in cui essa circola e in cui viene a determinare lo spazio simbolico e di mercato del prodotto nominato.

      Il richiamo affettivo, di fondamentale importanza per stabilire un legame fra il prodotto e il destinatario, è dato dalla visualizzazione, attraverso il nome, della figurazione dell’etichetta: così molti nomi evocano direttamente l’etichetta o il marchio, spesso invece è lo stesso slogan a suggerire il nome dando luogo a un conglomerato sintattico. Il nome commerciale o pubblicitario è dunque un "cartellino" appeso alla merce che, attraverso la quotidiana riproposizione, si fissa negli occhi e nella mente del consumatore.

      Lo studio della confezione – la progettazione di ogni suo particolare funzionale ed estetico – assume nella comunicazione pubblicitaria un’importanza determinante poiché costituisce il veicolo dell’impatto del prodotto sul consumatore insieme al nome industriale, con cui è in stretto rapporto. Al packaging è affidato il compito di presentazione della merce: questa è nascosta, protetta da un involucro o da una confezione che la rendono spesso invisibile. Pur invisibile, del resto, il prodotto è largamente percepito dal consumatore come presente, esistente a tutti gli effetti: egli se ne è creata un’immagine in seguito al primo impatto col nome e con la grafica che lo esprime. Il nome del prodotto sulla confezione rivela già in parte la natura del contenuto, o vi allude, o serve da richiamo iconico al contenuto; la confezione ha dunque il duplice scopo di nascondere e di presentare, e su di essa il nome è posto come su un supporto visivo che rappresenta il prodotto (accade di frequente nel caso dei contenitori di prodotti alimentari), oppure si sviluppa in motivi decorativi, o si dispiega su uno sfondo privo di elementi grafici (è il caso delle confezioni di profumi), o ancora costituisce l’elemento dominante di un’etichetta.

      Il nome e la confezione sono posti in relazione stretta soprattutto per quanto riguarda l’aspetto delle proporzioni e dei cromatismi: un nome lungo non può essere compresso sull’etichetta di una boccetta di profumo larga pochi centimetri a meno di comprometterne la leggibilità e la chiarezza, così come un nome molto breve su una confezione larga rischierebbe di perdere la propria efficacia e di scomparire in una dimensione spaziale inadatta.

      Ecco dunque che progettazione del nome e progettazione di packaging trovano una convergenza nell’aspetto tecnico delle dimensioni che viene regolato dalla natura del prodotto e dalla sua configurazione nell’assemblaggio scelto per il confezionamento. Per distinguere una confezione tra le altre della stessa categoria merceologica è necessario tenere sempre presente l’identità dell’immagine che il nome del prodotto suggerisce, oltre alla forma di packaging che meglio gli si addice: ciò comporta la scelta dell’elemento retoricoda privilegiare, se la forza comunicativa del nome o quella della confezione, ovvero se attribuire maggior valore figurativo e espressivo al nome ovvero affidare il riferimento principale del prodotto alla confezione, dunque alla sua forma.

      Fra contenitore e contenuto può crearsi un rapporto totalizzante, al punto di non permettere una vera e propria separazione fra le rispettive immagini: si veda l’esempio della confezione del detersivo per lana Sole Bucato, dove la confezione è costituita da un barattolo di plastica rosa a forma di gomitolo di lana, stretto al centro dalla fascetta che coincide con l’etichetta del prodotto. Il nome non specifica che si tratta di un detersivo per lana: sono piuttosto la forma del contenitore, il suo colore, la fascetta "da gomitolo" che narrano la qualità del prodotto e la traducono in immagine; in esempi di questo genere si chiarisce come la forma del packaging abbia un ruolo dominante nella comunicazione e possa condurre di frequente alla creazione di significati in maniera assai più diretta di quanto non sia possibile fare con le parole.

      Un altro esempio di questo tipo di meccanismo è quello dell’immagine di Anitra WC, prodotto per la pulizia del water. Anche in questo caso è la confezione, dalla forma funzionale e gradevole, a esprimere la qualità del prodotto e a indirizzare il senso della comunicazione pubblicitaria: la linea sinuosa del beccuccio sollecita il rinvio al nome del prodotto, in un gioco di reciproco rafforzamento fra packaging e naming.

      Oltre alla linea, anche il materiale della confezione riveste un ruolo importante, non disgiunto dalla praticità e maneggevolezza: non a caso le maggiori agenzie pubblicitarie affiancano di frequente al grafico un industrial designer il cui compito è quello di concepire la confezione come oggetto – più o meno effimero – caratterizzato soprattutto da una funzionalità precisa che deve essere sottolineata ed esaltata da elementi formali e stilistici. Non è raro il caso di confezioni dal valore intrinseco di gran lunga superiore di quello del contenuto: il contenitore assurge in queste occasioni al livello di oggetto autonomo, a volte addirittura di opera d’arte, come nel caso delle bottiglie di cristallo di molti whisky e superalcolici (per esempio il whisky Dimple, dalla raffinata bottiglia di cristallo, o l’Amaretto di Saronno con una serie di bottiglie da collezione) che identificano il prodotto – sia a livello di contenuto sia di contenitore – come elemento di distinzione, scelta elitaria e segno di raffinatezza. E si consideri ancora l’esempio delle lattine della Coca-Cola e della Pepsi-Cola, prodotte in momenti particolari dell’anno – di solito a Natale - con il chiaro intento di stimolare il collezionismo e di sfruttare l’interesse per il "modernariato" che raccoglie simulacri del tempo presente con lo stesso entusiasmo con cui gli amanti del Neoclassico vanno a caccia di teiere di Wedgwood; il prodotto passa chiaramente in secondo piano, pur restando parte essenziale dello scambio commerciale e trovandosi addirittura a vivere, nelle nuove vesti, una seconda giovinezza comunicativa.

      Un caso in tutto simbolico del plus di valore che può essere annesso al prodotto da un packaging riuscito è quello dell’evoluzione della confezione delle sigarette Lucky Strike: nata come scatoletta metallica piatta con etichetta rossa su sfondo verde caratterizzata da una grafic poco chiara, negli anni Trenta si riduce nelle dimensioni e al cerchio rosso se ne aggiungono uno giallo e uno nero. Successivamente dalla confezione metallica si passa a quella di carta, lo sfondo verde viene sostituito dal bianco e il segno-simbolo dei tre cerchi assume la connotazione di vero e proprio marchio industriale: l’immagine del prodotto si consolida grazie a questi tratti essenziali che riescono a differenziarla da quelle dei concorrenti.

      La confezione come racconto

La pianificazione pubblicitaria ha l’obiettivo primario di creare intorno al prodotto una griglia di rinvii simbolici, psicologici e culturali che, per essere efficaci, devono inserirsi nel contesto sociale di destinazione sollecitando una ricezione immediata e facilitando la decodificazione del messaggio veicolato; l’operazione richiesta è dunque di natura semiologica, di attribuzione di senso e di costruzione di allusioni. Si tratta in definitiva di attribuire al prodotto un’identità, un nome sociale, una rappresentatività. In questo senso la confezione, che sta metonimicamente per l’oggetto contenuto, è un

ipersegno, poiché è essa stessa un segno (è elemento, ad esempio, di cartone – significante – disposto a contenere proteggere raffigurare qualcosa – significato-) ma a sua volta è significante rispetto a quel prodotto. Da un livello prevalentemente iconico, denotativo, la confezione passa a un livello connotativo, di espressione della sua semanticità in relazione stretta col contenuto.

La case history del lenzuolo Perfetto della Bassetti è un esempio significativo di strategia di packaging per un prodotto nuovo, non esistente sul mercato, nel cui caso la confezione ha il compito di sottolineare l’inedita soluzione degli angoli elasticizzati del lenzuolo, rendendola elemento di raffinato design. Le ricerche di mercato hanno evidenziato che la confezione per un prodotto di questo genere deve richiamare l’idea della notte, del cielo stellato, del riposo; la scelta è caduta su una forma "a libro" costituita da due parti a mo’ di copertina che consentono di scorgere il colore del lenzuolo e che nella parte non trasparente presentano uno sfondo nero con puntini bianchi che richiamano un cielo stellato. Il nome Perfetto, oltre a significare la "perfezione" del prodotto, richiama la situazione "perfetta", ideale del riposo e del relax serale. Nel commercial televisivo il nome gioca un ruolo decisivo nel dirigere la catena delle allitterazioni sul filo della giustapposizione di parole contenenti la lettera /t/ e della consonanza di /ti/ e /to/: tiri, stiri, elastico, bloccato, dritto, letto, fatto. La parola diventa fatto musicale, produce ritmo: Tiri l’elastico e l’angolo è fatto. Lenzuolo perfetto bloccato nel letto. Sganci l’elastico e l’angolo è dritto. Lo stiri, lo pieghi… Bassetti ha inventato il lenzuolo… Perfetto.

Uno dei momenti più efficaci della comunicazione pubblicitaria intorno a un prodotto è quello della presentazione sul punto vendita. La pianificazione della rappresentazione iconica deve tenere conto dell’ambiente in cui il prodotto verrà esposto, elaborando allestimenti basati su formule sintetiche ma visivamente coinvolgenti: a tal fine vengono utilizzati gli strumenti forniti dal merchandising, la tecnica di marketing finalizzata alla progettazione di una appropriata struttura espositiva, alla giusta collocazione del display (l’espositore destinato ad accogliere una certa quantità di merci) e del presentoire (l’espositore da banco, di dimensioni ridotte).

Il grafico deve studiare soluzioni per la forma – in relazione alla dimensione delle confezioni esposte – e per la valorizzazione del contenuto informativo dell’espositore nel contesto dello spazio in cui questo si inserisce; l’interesse del pubblico sarà catturato dall’adozione di un testo accattivante dotato di un adeguato lettering e accompagnato da una congrua scelta iconografica. Il display ha dunque un valore iconico e linguistico oltre che funzionale e strutturale, una potenzialità di comunicazione narrativa che deve conciliare la chiarezza e l’immediatezza del messaggio con la sua piacevolezza.

Il display può richiamare gli elementi centrali dell’eventuale campagna televisiva, rafforzando l’immagine e la comunicazione di un prodotto già dotato di un profilo; oppure l’espositore può essere collegato a formule promozionali o al lancio di un prodotto nuovo, nel qual caso l’elemento narrativo può essere azionato dal gift della promozione.

Anche gli espositori che riprendono l’iconografia presente sul packaging offrono un buon effetto comunicativo, consolidando l’immagine con cui il prodotto viene presentato al consumatore. Un esempio è quello del diplay della Pavesi che riproduce in grandi dimensioni il motivo iconografico delle confezioni del Felice Mattino puntando sul richiamo alla natura con disegni di uccellini, cieli azzurri e nuvole bianche (e di pari passo il lancio promozionale della raccolta punti propone di collezionare piatti con lo stesso decoro).

In alcuni casi il percorso narrativo suggerito dalle immagini presentate sul display può essere esterno all’iconografia riportata sul prodotto, ma pur sempre collegata ad essa da una contiguità tematica: è il caso del display del Mulino Bianco Barilla, fatto a forma di covone con lo scopo di creare un rinvio diretto all’elemento naturale appartenente allo stesso campo semantico su cui si fonda l’intera campagna pubblicitaria, nonché la raccolta dei "covoni" offerti con i prodotti. Il rinvio, strutturale e iconico, al covone di grano sollecita il rafforzamento della campagna pubblicitaria ma anche un rinvio metatestuale e narrativo: la raccolta dei gadget e l’acquisto dei biscotti (le Spighe) viene suggerita come effettuata direttamente nel campo di grano. Gli elementi narrativi – l’atmosfera agreste, il campo di grano, il sole, i covoni – scatenano associazioni piacevoli che creano un percorso – l’uscita in campagna, il piacere del genuino, il desiderio della vita all’aria aperta – e di conseguenza il ricordo di una situazione simile già vissuta in passato o il "ricordo preventivo" di una situazione simile da vivere in futuro.

Se il display riveste una funzione molto rilevante nella comunicazione visiva ciò è dovuto alla sua funzione principale: quella di sollecitare nel fruitore una interpretazione personalizzata, soggettiva, tutta privata e dunque portatrice di significati affettivamente caratterizzati, interpretazione che viene innescata dalla combinazione delle immagini che diventano racconto, trama narrativa, percorso del desiderio.

Collegata alla tecnica di presentazione della merce sul punto vendita è, lo si è accennato, la strategia della sales promotion, che spesso comporta l’utilizzo del gift, articolo omaggio annesso al prodotto o conquistabile a forza di raccolte punti. La pubblicità si serve di tali oggetti per catturare l’attenzione e per creare una mitologia del consumo e del collezionismo; spesso accade che l’insieme del packaging sia di valore superiore a quello del prodotto stesso. Se ogni oggetto rappresenta sempre un’intenzione, sostituisce la parola, si mette al posto della verbalità, i gift pubblicitari si configurano come messaggi dal valore simbolico e iconico che devono suggerire associazioni fantastiche e dare vita a sequenze narrative: essi sono immagini-oggetto, messaggi parafigurali seduttivi e attraenti che possono avere un rapporto alquanto labile col prodotto con cui sono associati, ma che nella mente dell’acquirente si collegano inscindibilmente ad esso e agiscono da stimolo per il desiderio di costruzione, a casa propria, dell’universo narrativo che la campagna pubblicitaria gli ha presentato in maniera tanto accattivante.

 

Parola e immagine

Sempre più frequentemente il linguaggio della visione è utilizzato in pubblicità come tramite principale o esclusivo del messaggio, che viene ad articolarsi attraverso una serie di immagini che costruiscono una situazione o un racconto.

Se la parola è in grado di fornire rappresentazioni mediate dalla descrizione e si configura dunque come strumento prevalentemente razionale, l’immagine – che come l’elemento verbale utilizza concatenazioni di segni, ossia di grafie e figure che veicolano un significato altro da loro - possiede al massimo grado la capacità di ricostruire situazioni reali o immaginarie nelle quali il rapporto con l’oggetto è concreto e immediato, carico di un’emotività che rende il messaggio pubblicitario qualcosa di estremamente "vicino" alla sensibilità di chi lo recepisce.

La definizione, per la contemporaneità, di "civiltà dell’apparenza" non pare essere dunque casuale: l’immagine è il motore principe di ogni scambio comunicativo, e ciò vale a maggior ragione per i rapporti che hanno luogo fra società e mondo produttivo, tanto che la corporate image, ciò che di sé si vuol fare apparire all’esterno, è una delle nozioni più significative. Questa coinvolge i diversi momenti della progettazione del marchio e del logotipo fino alle scelte di lettering finalizzate all’occupazione dello spazio pubblicitario e sociale da parte della parola e della sua rappresentazione grafica. Dallo stadio originario – la nascita del marchio – in cui la parola e l’immagine si confondono fino a diventare una cosa sola, si passa attraverso evoluzioni della strategia di immagine, nell’ambito delle quali il linguaggio verbale e quello iconico vengono utilizzati per creare l’immagine dell’azienda; gli strumenti retorici che collegano l’identità del prodotto al marchio, immagine-sigla dell’azienda, quindi al nome della merce e al logotipo che lo presenta vengono combinati e modulati nei vari settori della comunicazione pubblicitaria e attraverso i diversi mezzi della strategia di pianificazione: televisione, stampa, radio, cinema, affissioni.

Dall’articolazione dei modi e mezzi della comunicazione, che sfrutta l’artificio retorico mediante il quale l’elemento verbale e quello comunicativo assumono valore e senso, deve emergere l’immagine aziendale e delinearsi il profilo di una corporate identity socio-culturale che vede la sua completa realizzazione nell’incontro fra messaggio e consumatore.

L’intreccio dei diversi codici, in particolare del visivo e del verbale, può essere osservato con profitto nella pubblicità televisiva, la quale permette di verificare che, se spesso le pratiche applicate entro i vari codici rispondono a leggi corrispondenti, gli effetti che ne derivano possono essere diversi a seconda che prevalga l’uno o l’altro o che invece si realizzi il loro equilibrio formale e strutturale.

Esamineremo brevemente tre spot, apparsi alla televisione britannica, dotati di un’identica struttura comunicativa: una voice off recita un testo mentre le immagini scorrono sullo schermo. Alla fine la sovrascritta riproduce lo slogan nel momento in cui anche la voce lo pronuncia.

Il primo spot, dello Electricity Board (l’Ente per la fornitura di energia elettrica), mostra un paesaggio notturno con una casa di campagna all’interno della quale dei bambini dormono. Di seguito vengono proposte immagini di presse stampanti e forni elettrici; ancora il paesaggio notturno, ancora immagini di attività industriali: mungitura elettrica, illuminazione di città, distribuzione automatica della posta. La voce recita: Every night while you’re asleep a miracolous power is at work in the land [paesaggio notturno], a power which is used for everything. From printing your morning paper to baking your daily bread. A power so verstile that it can milk cows, light our cities, even sort the morning mail. And long before you wake [paesaggio notturno], your Electricity Board is at work for you to serve you through the day, providing you with news, entertainment, light, heat and countless labour-saving devices.

Mentre sullo schermo appare il brand name, la voce pronuncia: The power is electricity, Energy for life.

Parola e immagine si corrispondono e costituiscono un reticolo di richiami: esiste una ripetuta coincidenza fra la parola che descrive, definisce, elenca e l’immagine che illustra ed esemplifica. Possiamo dire che in questo caso l’elemento iconico e quello verbale si rafforzano a vicenda pur nell’autonomia espressiva dei due codici e dei relativi testi; uno spot del genere, basato sulla performatività, è quanto di più prossimo si possa realizzare basandosi su una delle regole originarie dell’advertising: Say what you show, show what you say.

Il secondo caso è rappresentato dallo spot del detersivo Surf, nel quale i codici iconici – immagini, suoni, colori – dipanano un racconto parallelo ma diverso rispetto al codice verbale, dando luogo a divaricazioni fra i percorsi che in alcuni punti tornano però a coincidere, quando le immagini mostrano quello che le parole dicono (l'isomorfismo che abbiamo visto realizzato nell’esempio precedente).

La sequenza filmica mostra due surfers su alte onde [colonna sonora: A new kind of surf has arrived, bringing in a cleaner, altogether fresher wash. It’s New Surf Automatic]. Scontro tra due flotte, delle quali una ha le vele macchiate [With the power to fight the toughest stains, from grease to grass, ketchup to cocoa]. Lo scontro continua; alla fine le vele sporche appaiono pulite [Because New Surf is the only one to combine a special deodorizing action to get your clothes totally fresh, and a biological power to get your wash really clean]. Appaiono di nuovo i surfisti [That’s the spectacular power of Surf]. L’onda si alza all’inverosimile [Lifting the whole wash to new heights. With cleanness you can see, a billowing freshness you can smell]. Ancora i surfisti [Catch the wave with New Surf].

A guidare la metafora che domina l’intera sequenza è l’invenzione del brand name; la metafora surf è traslazione dell’"onda lavante" del detersivo così come le tovaglie diventano vele e il bucato può essetìre tradotto in battaglia Registriamo però lungo il filmato ripetuti momenti in cui il registro visivo e quello verbale non riescono a coincidere: la ripresa filmica è recepita come autonoma in se stessa, più volte l’immagine dei due surfisti rimanda solo al surf come sport e non alla potenza detergente del prodotto, provocando l’indebolimento della valenza metaforica del testo verbale. L’immagine sembra fagocitare il testo e renderlo sussidiario a sé, riducendolo alla mera lettera; si evidenzia dunque il prevalere della figuralità rispetto alla trasposizione verbale.

Nel terzo esempio proposto il testo adotta un criterio di estrema libertà compositiva, per cui il testo verbale e la sequenza filmica possono sembrare totalmente distinti, almeno fino al momento finale in cui si verifica l’aggancio fra i due piani. Lo spettatore si trova così a seguire mentalmente due percorsi separati: da un lato sente la voice off che illustra le attività della Nationa Giro Bank, dall’altro vede le immagini di un suggestivo paesaggio desertico percorso da un leone. Riportiamo il testo verbale:

Most banks now offer you free banking. But once you move out of credit, it’s another story. You pay. In some cases for up to three months. But there is one High Street Bank that offers you cheaper free banking, National Giro Bank. Not a moment longer. And when you are back in the black, even by a penny, that’s the end of it. No more charges. Now you can see the difference. Take a closer look at cheaper free banking, from Giro Bank. [Sovrascritta: Free personal account banking. National Giro Bank. Pick up a leaflet at your Post Office].

La testa del leone che si vede sullo sfondo del deserto è richiamata nel leaflet: essa costituisce il simbolo della banca, informazione rimasta nascosta per la durata dell’intero messaggio. In quest’ultimo esempio le immagini sono lontane dalla descrittività del primo quanto dalla alterna figuralità del secondo; tuttavia si può stabilire un legame fra l’aggettivo free riferito all’attività bancaria e la libertà e fierezza del leone, che porta all’assimilazione da parte dello spettatore del brand image. L’indipendenza, anche solo apparente, dei codici non crea interferenze fra il livello visivo e quello verbale, e ciò si traduce in un minor rischio di indebolimento reciproco: le costruzioni metaforiche sono autonome e vivono di vita propria suscitando nel destinatario una ricerca attiva della loro ragion d’essere, e in definitiva coinvolgendolo al massimo grado nel tentativo di decodificare il messaggio.

 

Conclusioni

La lingua della pubblicità è stata definita "una lingua centrifugata". Fra le tante, sembra una delle definizioni più calzanti per un tipo di messaggio che spesso si avvicina alla perdita totale di senso, e comunque se ne fa portatore in modo decisamente anomalo.

Riassumiamo sinteticamente il percorso compiuto in questo lavoro evidenziando i punti di partenza e di arrivo.

Dalla analisi semiologica abbiamo mutuato i concetti volti a segnalare la distanza che separa l’intenzione di segnalare il prodotto da quella diretta a mitizzare le promesse collegate al prodotto stesso. Si rileva in questo ambito una decisa prevalenza dell’elemento mitologico, per cui il prodotto diventa semplicemente una parte di quel mondo. La maggior parte della pubblicità odierna si presenta come frammentaria, spezzata in fotogrammi che rinviano a una storia: anche se lo spettatore non la conosce, egli potrebbe raccontarla perché essa è già dentro di lui. All’interno di questa presentazione, il marchio del prodotto è marginale, quasi superfluo; ciò che conta è l’elemento narrativo, mentre il prodotto è divenuto un pretesto per dare vita a una sequenza di immagini. Assume tutta la propria pregnanza la famosa affermazione del pubblicitario francese Jacques Séguéla: "il prodotto è la star, e la pubblicità è il cinema".

Lanalisi linguistica e retorica del testo ci mette a confronto con testi verbali sempre più brevi, ellittici, nei quali l’elisione e la disgiunzione non sono più recuperabili all’interno del codice linguistico ma possono chiarirsi soltanto grazie al rapporto gerarchico che si instaura fra codici: la parola tende a subordinarsi all’immagine, perde la sua autonomia secondo un processo di "iconicizzazione" che tende ad accentuarsi sempre più. Pare di poter avanzare l’ipotesi che le prospettive critiche sul rapporto parola-immagine, come quelle elaborate da Barthes, si siano rovesciate definitivamente. La parola, nell’advertising, non àncora più l’immagine ad uno dei suoi molti significati possibili, non opera, entro la catena fluttuante dei significati trasmessi dal codice polisemico e ambiguo delle immagini, un senso privilegiato. Sembra semmai di poter formulare l’ipotesi opposta: l’immagine, codice polisemico evocante una pluralità di sintagmi possibili, disancora la lingua dalle sue strutture portanti e la rende – come se stessa - galleggiante in una dimensione ambigua dove la coesione discorsiva si frantuma in frammenti separati e incoerenti e dove il senso pare disseminarsi in modo incontrollato.

L’analisi dei codici linguistico e visivo ha permesso una sintetica rassegna delle figure retoriche che trovano applicazione in uno o l’altro o in entrambi i codici e che possono corrispondersi, completarsi vicendevolmente o divergere le une dalle altre causando un reciproco indebolimento.

Dall’analisi della comunicazione si è potuta rilevare una sempre più marcata deformazione dello schema comunicativo tradizionale, fino alla scomparsa del destinatario del messaggio e alla assunzione di centralità da parte del prodotto, fonte unica del messaggio e punto portante di tutte le funzioni comunicative. Il destinatario sembra configurarsi come simulacro di se stesso, protagonista dell’utopia disegnata dalla pubblicità e delle promesse che questa pare concretizzare.

La lingua della pubblicità è nel suo complesso caratterizzata da un fenomeno che abbiamo definito di iconicizzazione, un processo che trova la sua completa realizzazione nella pubblicità televisiva ma che sta diffondendosi rapidamente anche in altre forme della comunicazione sociale. L'’conicizzazione della lingua sembra avere avuto origine in alcuni punti in cui i codici iconici hanno aperto alcuni passaggi: uno di questi punti di crisi è quello del brand name pubblicitario, il marchio brevettato, inscindibile commistione fra nome e immagine, conglomerato inedito e differente dalla somma degli elementi che lo formano. E’ stato definito un "semiogramma" poiché trasmette un messaggio misto, ancora verbale ma non più soltanto verbale; in quel "linguaggio venduto" che è la pubblicità, il semiogramma realizza al suo interno "una corrispondenza assoluta fra marchio e oggetto", una omologia assoluta fra significante e significato tali da annullare l’arbitrarietà del segno e rendendone in definitiva impossibile i reimpiego e il rinnovamento creativo.

La pratica pubblicitaria del brand name favorisce il fenomeno della reificazione o mercificazione linguistica, della creazione di oggetti semiotici a se stanti, conclusi e autonomi: il semiogramma, sia esso un segno grafico o un insieme compositivo verbale-visivo, non si riferisce a niente altro che a se stesso nella sua finale autonomia.

Preso isolatamente, il brand name è una parola vuota, indessicale, la cui sola referenzialità è il now del momento in cui viene lanciata e proposta, e trova il suo senso nella sincronia del paradigma totale e sempre rinnovato dei messaggi pubblicitari. Il destino riservato a questo oggetto semiotico è l’aspra battaglia per durare nel mercato; perdere significa una rapida obsolescenza, poiché la guerra tra prodotti è eminentemente competizione tra marchi.

La maglietta che riporta il logo della Coca Cola comunica qualcosa, ma cosa? Parla del prodotto, della maglietta, del ragazzo che la indossa? La risposta sta forse in tutte queste ipotesi: dalla comunicazione di consumo si passa, con un balzo ulteriore, al consumo di comunicazione, al linguaggio che, in apparenza libero, finisce per ripiegarsi su se stesso e per parlare di se stesso.

Nel registro pubblicitario televisivo si rileva un altro fenomeno connesso con il rapporto fra parola e immagine: l’immagine sembra indebolire il linguaggio diminuendone la valenza figurale. L’immagine, difatti, ha l’effetto di letteralizzare le figure del discorso verbale, distruggendole in quanto tali. Il processo di disancoraggio operato dall’immagine nei confronti della parola tende alla creazione di una lingua nuova nella quale le parole si susseguono rapidamente, in maniera discontinua e priva di logica, secondo una progressione che è caratteristica dell’immagine e che, come nel cut up del montaggio cinematografico, ha il potere di intaccare la linearità sintagmatica del linguaggio e di ricostruire percorsi e ritmi inusitati.

A questo proposito può essere significativo esaminare la testimonianza di prima mano di un creativo, il canadese Marty Myers, in merito alle procedure adottate nell’elaborazione dei messaggi pubblicitari:

Different media work differently. Print is linear and it’s a left-brain medium – it’s linear, logic, rational, and it goes a-b-c-d. Everything follows in sequence. If you have a long story to tell, if you have a success story, if you have news, the place to go […] is print. If you have a story that isn’t a story, if you have to deal in clouds like perfumes and stuff […], if you have an emotional story to tell, your best bet is probably a right-brain medium which is clearly television. It works in a different way entirely. You don’t have time to make a rational argument – you use a metaphor, something out of the other art forms. You do something out of music, out of film, out of drama – the really good creative people know little about marketing and a lot about the arts.

Il pubblicitario, dunque, possiede nozioni d’arte e ne fa qualcosa, ci lavora intorno: è un bricoleur, un saccheggiatore che lavora attraverso il prestito, la parodia, il pastiche; strumenti che gli permettono di muoversi, comprendendole e manipolandole, all’interno delle dinamiche che interessano sia l’evolversi della cultura di massa sia i concomitanti fenomeni di natura linguistica ed espressiva.

 

 

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