COMUNICAZIONE E PSICOLOGIA DEL PRODOTTO

Comunicazione visiva e retorica dell’immagine

Strategie iconico-verbali

Retorica delle associazioni di pensiero

     Discorso pubblicitario e strutture del desiderio

     Psicologia della pubblicità




 

 

La lettura a diversi livelli del messaggio può essere indotta, oltre che dall’uso ambiguo delle figure del discorso, dal contemporaneo utilizzo del messaggio visivo, cui viene affidato il compito di stimolare e aiutare l’individuazione e lo scioglimento del doppio senso linguistico. Quelli che senza il sostegno dell’immagine rischierebbero di costituire giochi di parole scialbi e risaputi diventano efficaci elementi di un messaggio complesso, costituito da slogan più iconogramma, dato linguistico e suo corrispettivo grafico. La scelta del nome deve insomma essere sostenuta da una adeguata strategia di immagine, il cui scopo è quello di canalizzare il rinvio semiotico del nome industriale anche mediante l’utilizzo del logotipo, che può produrre effetti di senso capaci di aumentare il valore "strategico" del nome stesso.

Il logotipo di un prodotto come il profumo Fidji dovrà sottolineare l’atmosfera di sogno romantico e di raffinato esotismo che il prodotto vuole ispirare; un carattere grafico sbagliato (preciso e netto, di secca razionalità) interromperebbe il circuito delle associazioni fantastiche favorite da una scelta più sfumata e pittorica. Ai sensi figurali di tipo strettamente iconico si aggiunge tutta una serie di relazioni extralinguistiche connesse alla pura percezione visiva, in cui il logotipo viene ad assumere pertinenza anche in relazione al contrasto cromatico, allo sfondo, alla corposità del carattere nel contesto dell’iconogramma. Se consideriamo, per esempio, il carattere di Orzoro, possiamo notare come,

accanto alla significazione primaria trasmessa dal nome, affiorino dei sensi paralleli trasmessi dalla grafica, dal colore, dallo ‘spessore’ delle lettere, dal contesto […] allegro e giocoso in cui si muove un trenino di legno carico di bambini: ecco che dal significato del nome e dall’immagine che esso crea ci si sposta verso altre associazioni più o meno libere, più o meno previste, ma comunque simboliche.

Quando il nome industriale del prodotto è costruito su percorsi di senso "interni" a questo, cioè su caratteristiche intrinseche, il logotipo e il contesto in cui esso viene inserito si aprono a richiami e a rinvii iconici di tipo fantastico e allusivo; se, al contrario, il nome è di tipo metaforico oppure simbolico, costruito cioè a partire da percorsi "esterni" e slegati dal prodotto, allora il contesto iconico deve ricorrere a elementi esplicativi, a tracce che riconducano il messaggio alla realtà della merce.

Come il linguaggio verbale pubblicitario si colora di espressioni figurate per catturare l’interesse del pubblico, difatti, altrettanto il linguaggio iconico utilizza le figure della retorica classica per provocare nella mente dell’osservatore quelle associazioni che possono rafforzare l’immagine del prodotto. Se l’immagine gioca – al pari della parola – un ruolo fondamentale come strumento di informazione e di comunicazione, è ovvio che il linguaggio della visione costituisca, spesso affiancato alla parola, ma sempre più frequentemente senza il supporto di questa, il messaggio.

L’immagine possiede al livello massimo la capacità e la possibilità di ricostruire sensazioni reali o fantastiche attraverso vari artifici mentre con la parola ciò non è così immediato poiché essa è in grado di fornire solamente rappresentazioni virtuali mediante la descrizione. [La parola] non riesce a raggiungere il grado emozionale offerto dall’immagine che propone un rapporto concreto con l’oggetto stesso.

I vari aspetti della grafica (cartellonistica, illustrazione, computer graphics, lettering) si prestano in modo eccellente a essere caricata di sensi figurati, a concentrare il massimo dell’espressione nel minimo di spazio; in definitiva, a creare una struttura narrativa che obbedisca alle regole della retorica classica. Non intendiamo separare la dimensione iconica da quella verbale, poiché è indubbio che il testo pubblicitario deve essere ricondotto ad una totalità verbale e iconica all’interno della quale le figure di competenza di una espressione si innestano su quelle dell’altra – accade così che la parola "diventi" immagine e viceversa – come è naturale che le figure espressive, coinvolgendo il campo visivo, diano vita al circuito persuasivo; tenteremo quindi di accennare ad alcune fra le molteplici figure retoriche di cui l’immagine pubblicitaria si sostanzia.

Le figure di amplificazione orizzontale permettono di aumentare l’efficacia del discorso, dando rilievo ad alcuni particolari. Appartengono a questa categoria, fra le altre, la ripetizione, la paronomasia, il paralogismo, l’argomentazione.

Le figure di chiarificazione semantica centrano il concetto fondamentale, rendendolo comprensibile e "leggibile". Rientrano in questo gruppo la definizione e l’enumerazione.

Le figure di dilatazione semantica danno rilievo al concetto principale mediante la sua integrazione con altri concetti, che tendono ad esaltare il primo. Alcuni esempi: l’antitesi, la similitudine, il chiasmo, il luogo comune, l’epifonema, l’iperbole.

Le figure di omissione puntano alla realizzazione di effetti espressivi sintetici e immediati, tralasciando l’idea di base per creare curiosità. Fra di esse: la litote, la reticenza, la preterizione.

Le figure di sostituzione, infine, basano la loro efficacia sulla sostituzione di un concetto o di parte del testo con elementi che hanno un rapporto solo allusivo con il discorso. Appartengono a questa categoria la metonimia, la sineddoche, la metafora, la perifrasi, l’antonomasia, l’allegoria, la personificazione.

La ripetizione viene usata in pubblicità quando si vuole insistere su una parola o su un concetto per ricondurvi l’attenzione; essa può creare un effetto di memorizzazione attraverso il gioco ripetitivo e ritmico, ma può anche costituire un elemento compositivo nel contesto dell’immagine. Un efficace esempio di ripetizione si trova nella pubblicità Ungaro, dove il motivo dell’incrocio presente sulla bottiglia di profumo si ripete, amplificandosi, nell’abito a pieghe della donna, che anche nella linea rispecchia la forma sinuosa della boccetta. Il testo è assente, se si esclude l’indicazione della marca: solo all’immagine è affidato il compito di richiamare l’analogia fra un modo di presentarsi (la confezione del profumo) e un modo di essere (la donna).

La paronomasia è un tipo particolare di ripetizione che, grazie a uno scarto minimo all’interno di una parola, ottiene un effetto di stravolgimento del suo significato ("chi dice donna dice danno"). In ambito visivo, la paronomasia si realizza tramite la ripetizione di un’immagine con una qualche variante: la pubblicità del purè Knorr mostra una patata per metà "al naturale" e per metà trasformata in purè. Il mutamento, realizzato in questo caso sullo stesso soggetto, permette di associare il prodotto al suo componente principale e dunque alla sua origine naturale.

Il paralogismo, molto usato in ambito visivo pubblicitario, permette di giungere a delle conclusioni partendo da un ragionamento falso che si dà per fondato. La pubblicità delle pellicole Agfa mostra l’immagine di una ragazza che si distacca dallo sfondo: siccome i colori Agfa riproducono fedelmente la realtà, le fotografie Agfa "sono" la realtà. Solo la mano che tiene la foto, questa sì a grandezza naturale, riconduce alle giuste proporzioni; ma il trucco del paralogismo riesce ugualmente poiché il frammento distaccato e lo sfondo da cui è tratto continuano a coincidere, a proporsi come "veri".

La definizione offre la possibilità di illustrare con chiarezza il copy, presentando con evidenza il senso del messaggio. Nella pubblicità del profumo Krizia uomo la sequenza fotografica illustra il movimento del corpo maschile, ponendosi quasi come didascalia illustrata del copy (Il senso del corpo).

L’enumerazione consiste nella puntuale esposizione degli elementi necessari alla comprensione del concetto espresso nel messaggio. In campo pubblicitario si ha dunque enumerazione quando il prodotto viene descritto con puntigliosità e la gamma delle merci esposta come in una vetrina o su un catalogo (maniglie Valli & Colombo).

Il luogo comune possiede una valenza iconica che si evidenzia nella sua funzione di sottolineare, di una merce, le caratteristiche più gradite al pubblico, ciò che esso si attende di sentirsi dire. Nella pubblicità della Citterio il salume è posto in primo piano, presentato in modo appetibile, su uno sfondo che – con il camino acceso e l’ambientazione familiare – dipinge una calda atmosfera rilassata e romantica (un luogo comune fra i più collaudati e al tempo stesso efficaci).

Sulle orme del luogo comune, l’epifonema utilizza concetti universalmente accettati, conferendo loro un valore spettacolare, una sottolineatura sentenziosa che tende a concludere il discorso iconico in modo grandioso e a soddisfare le attese create in maniera eclatante. La pubblicità della Colmar, con il motivo del tramonto egiziano innevato (introduzione del paradosso), crea una spettacolarità inconsueta: la retorica dell’immagine acquista forte valore connotando la linea di abbigliamento da sci come strumento di protezione contro l’imprevisto e imprevedibile, soddisfacendo le attese di un target amante dell’avventura inconsueta.

L’iperbole, assai utilizzata nel linguaggio visivo della pubblicità di concerto con enfasi, antitesi e paradosso, consiste in una paradossale esagerazione del concetto centrale del discorso che gli conferisce coloriture espressive particolarmente efficaci. Nell’immagine della campagna Mulino Bianco Barilla che mostra una bambina alle prese con una cartella enorme, dalle dimensioni eccessive rispetto al contesto, si evoca il "peso" della vita (scolastica, ma non solo). L’iperbole è combinata con l’antitesi, che si manifesta nel contrasto fra la minuscola bimba e la grande cartella, a creare una dimensione fiabesca e mitica da coraggiosa - e infine vittoriosa - lotta fra Davide e Golia, fra il piccolo eroe e il grande mostro.

La preterizione, come la reticenza e la litote, è una figura retorica che prevede l’omissione dell’argomento oggetto del messaggio, o perlomeno l’abbandono degli elementi che nel contesto hanno una posizione di scarso rilievo. In ambito visivo pubblicitario si ha preterizione quando si celano alcune parti di una figura al fine di rivelare, del prodotto, un’immagine quasi ideale. Nella pagina pubblicitaria della Ford Sierra la linea bianca su fondo azzurro porta l’immagine dell’automobile al di là del suo aspetto reale, mettendone in rilievo la sinuosità e l’aerodinamicità.

L’antonomasia permette di sostituire – o di denominare altrimenti – l’oggetto centrale del discorso con un segno dalla particolare forza iconica. Se sul piano linguistico l’espressione "la terra del Chianti" sostituisce "la Toscana", su quello dell’immagine la fotografia della cupola del Brunelleschi sta per quella regione.

Anche la metonimia e la sineddoche sono riconducibili al concetto di sostituzione. La prima stabilisce con l’oggetto sostituito un rapporto di contiguità, la seconda di quantità, allo scopo di dare particolare rilievo a un particolare o, partendo da questo, di rinviare a un’idea generale. L’immagine utilizzata per il whisky Ballantine’s, per esempio, sfrutta la sineddoche nel taglio che isola due figure dal contesto e la metonimia nella sostituzione di lui e lei con le loro ombre.

La metafora, altra variante della sostituzione, consiste nell’uso di un segno con significato proprio al posto di un altro segno il cui significato proprio è somigliante. Un esempio di questo "paragone abbreviato" è la pubblicità del lassativo Dulcolax: l’intestino è intricato come un labirinto – l’intestino è un labirinto. A tale percorso si aggiungono l’eufemismo del labirinto-giardino e i riferimenti metaforici delle panchine-cibo, piscina-fegato, fontane-reni.

Anch’essa figura della sostituzione, l’ironia si concretizza in un meccanismo provocatorio: il pensiero da comunicare viene sostituito da uno di senso contrario, carico di allusioni e di ammiccamenti. La Bayer pubblicizza il proprio veleno per topi Racumin con un head che avverte: Buono da morire, dove l’ironia diviene metaforica nell’immagine della confezione a forma di groviera e nella parola buono, termine ironico sia di parola sia di immagine.

La personificazione, figura molto usata in pubblicità, consiste nel dare corpo a concetti e a oggetti. La pagina pubblicitaria della Voiello presenta una faccia sorridente composta dai diversi tipi di pasta; quella del motociclo Atala uno mostra una statua che salta sul sellino; nella pubblicità della candeggina Può, infine, è una macchia di sporco ad animarsi.

Concludendo questa breve e incompleta rassegna della retorica applicata in modo particolare all’immagine nella pubblicità, possiamo notare che questi strumenti non vengono utilizzati esclusivamente per effetto di un programma deliberato e di una strategia calcolata. Essi, difatti, sono parte integrante del linguaggio, connaturati alla sua espressione; e se la loro interpretazione non è vincolata dalla conoscenza dettagliata della retorica classica, essa permette almeno una prima comprensione dei meccanismi interni della comunicazione pubblicitaria e dei valori linguistico-iconici che essa veicola.

 

Strategie iconico-verbali

Al fine di ottenere credibilità, prevedibilità o sorpresa, e infine persuasione, la comunicazione pubblicitaria orienta il proprio messaggio sui registri iconico e verbale. Come le immagini, anche le espressioni verbali sono costituite da segni che compongono un senso complessivo, canalizzato dal messaggio verso l’interpretazione voluta. Le funzioni dei vari segni possono essere considerate intercambiabili: si va dalla totale predominanza dell’immagine che può parlare più di uno slogan, al messaggio costituito solo da headline, copy e payoff in assenza di elementi iconici.

Alcuni esempi: nella pubblicità della linea di abbigliamento giovanile Pepper due ragazzi sono posti in primo piano, sovrastati da un’insegna luminosa con il marchio dei jeans che risplende nella notte. Il logotipo ritorna, inclinato come l’insegna luminosa, sulla maglietta della ragazza, con un forte contrasto cromatico fra le due scritte.

L’interpretazione è orientata al riconoscimento di una atmosfera notturna e metropolitana, e i due giovani non rappresentano solo se stessi; è soprattutto un "tipo" sociale e culturale – il ribelle, l’alternativo, l’anticonformista, il viaggiatore – che essi, così contestualizzati, evocano.

Un esempio in senso opposto è costituito dalla pubblicità delle assicurazioni Ras, dove il messaggio è interamente veicolato dalla parola: Incerto domani. Certo, Ras. Incerto casa. Certo, Ras, dove la coppia dicotomica incerto/certo coinvolge il tempo (domani) e lo spazio (casa). Il copy è giocato, oltre che sul contrasto dei contenuti, anche sull’allitterazione e sul giro di parole che, proponendo una frase incompleta, si aprono ad interpretazioni extralinguistiche e dirigono l’attenzione e la curiosità verso il payoff, che descrive invece nei dettagli tutti i vantaggi del programma assicurativo.

In questi, come in numerosi altri casi, la pubblicità si affida alla predominanza ora dell’elemento verbale ora di quello visivo; ma è interessante analizzare come i due codici interagiscono quando vengono utilizzati nel contesto di un medesimo messaggio.

Rileviamo innanzitutto l’utilizzo assai diffuso di parole e immagini dal significato figurato e traslato: nella pubblicità dei biscotti Pavesini l’espressione Chi ama brucia non va, naturalmente, intesa in senso letterale ma interpretata come "chi ama, chi vive intensamente e appassionatamente, senza risparmiarsi, chi fa sport etc. consuma energia, brucia calorie": e l’immagine della donna in tuta da ginnastica che corre felice riflette questa lettura.

Nello slogan Pic Indolor. La siringa niente male, che è un esempio di litote - l’affermazione di un concetto mediante la negazione del suo contrario – l’headline riprende il significato del nome Indolor traslando l’espressione niente male verso la caratteristica di quella particolare siringa; l’illustrazione presenta la siringa in verticale mentre la posizione obliqua della confezione conferisce all’immagine un elemento di dinamismo, sottolineato anche dall’inclinazione della lettera "d" di Indolor nel logotipo in basso a destra.

Ancora di affermazione retorica si può parlare a proposito del testo pubblicitario elaborato per i biscotti Bistefani. Con Ci sbagliamo sempre… si asserisce, sarcasticamente, il contrario del significato letterale della seconda affermazione, Facciamo biscotti e ci vengono fuori pasticcini, e della terza, Non ce n’è uno uguale all’altro. Gli enunciati fanno traslare il significato complessivo del messaggio non soltanto verso la – sottintesa – affermazione opposta ("non ci sbagliamo affatto, perché facciamo dei biscotti buoni come pasticcini"), ma anche verso un’altra, anch’essa taciuta, dichiarazione: "non siamo semplici fornai, ma pasticcieri; i nostri prodotti sono artigianali, di qualità superiore".

L’immagine cui il testo si appoggia rafforza l’astuzia linguistica: a parlare, con fare burbero e imperioso, è un industrialotto di provincia, il tipico self-made man, che redarguisce un dipendente svagato.

Uno dei trucchi che coinvolgono tanto la parola quanto l'immagine è quello di ricorrere a una ambientazione fiabesca, attingendo alla figura retorica trionfante nell'advertising, la metafora. Nel caso di Renault è una strega l'auto R5 è raffigurata a cavallo di una scopa sullo sfondo di una cielo azzurrro: la metafora è articolata sulla similitudine "Renault è magica come una strega" e dunque fondata su una presupposizione (l'accettazione del fatto che le streghe esistono e che sono dotate di poteri magici) e su una implicazione (le possibilità "magiche" dell'automobile in questione). Da una considerazione retrospettiva si passa a una affermazione in prospettiva tramite un termine (implicito) che appartiene sia al campo semantico della strega sia a quello dell'automobile.

Un'altra metafora automobilistica è quella della Volvo: in Una Volvo di tre anni è ancora una bambina si associa - anche a livello di immagine - l'auto usata ad una bimba della stessa età.

Una figura retorica assai diffusa nella pubblicità è l'ellissi, figura d'espressione data dalla soppressione di una o più parti del discorso che permette di aprire l'interpretazione a varie allusioni.

In Verde la vita (Olio Sasso) il testo ha perso il verbo e si fa leggere come contrazione di un concetto ben più vasto: "la vita è bella negli anni verdi - quelli della gioventù - dunque è bene mantenersi giovani". Il verde, abbandonata la sua connotazione esclusiva di colore della giovinezza, favorisce l'aggancio con gli altri elementi del contesto: il colore dell'olio - metonimicamente sostituito dal verde della lattina che lo contiene - quello dello sfondo e degli abiti indossati dai due personaggi. L'inversione della parola "verde" evita, inoltre, la piattezza della costruzione normale e invita ad una lettura allusiva che quest'ultima avrebbe escluso.

 

Retorica delle associazioni di pensiero

Tra le espressioni linguistiche più disponibili alla manipolazione da parte della pubblicità vi sono i luoghi comuni e i proverbi.

Ciò che è stato detto mille volte, ripetuto e ascoltato all'infinito nell'utilizzo collettivo della lingua, quello che si presenta come una frase fatta dalla struttura rigida e appiattita nel significato dall'usura del tempo si presta, con apparente paradosso, a costituire un tema per variazioni fantasiose nel copy pubblicitario.

Dalla retorica antica, dove esso era considerato formidabile strumento di persuasione, alla comunicazione pubblicitaria, in cui è coinvolto nella sua forma espressiva che implica attenzione, il concetto di luogo comune ha avuto una storia esemplare, da un grado massimo di ‘valore’ a cui era affidato un contenuto o una verità ben definita, a un grado minimo, in cui la sua usura – che lo ha trasformato in banalità – gli permette di essere ‘espressione’, magari priva di senso, ma ricca di possibili interpretazioni iconiche: queste si dispongono facilmente a creare immagini e quindi a ricostruire un ‘valore’, un senso che permette al messaggio di articolarsi tra parola e immagine in rapporto diretto col prodotto.

Nell’antichità i loci communes servivano come espedienti per la memorizzazione degli argomenti all’interno del discorso retorico: l’associazione di idee permetteva di passare da un soggetto all’altro senza soluzione di continuità nell’impianto logico e di conservare una forza di convinzione; come l’exemplum medievale – frase centrale portatrice di una verità intorno alla quale i predicatori costruivano i loro sermoni, il luogo comune ha oggi la caratteristica di innescare associazioni già note alla memoria collettiva o di essere riconosciuto, predisposto quindi alla ripetizione. Tale carattere di uso reiterato, che sottrae a questa figura retorica ogni connotazione colta e innovativa, è rivalutato e reinventato dalla creazione comunicativa pubblicitaria - che tende a riciclarlo con originalità e con una buona dose di ironia – attraverso la demistificazione dell’originaria connotazione pesantemente ripetitiva e ricorrendo agli strumenti di una spregiudicata reinvenzione dell’immaginario collettivo.

Il luogo comune pubblicitario può essere ridotto ad una proposizione oppure esteso a un intero tema, dotato di unità di contenuto. Il significato letterale di una delle parole può suggerire associazioni pertinenti a una caratteristica del prodotto; altre volte, a suggerire la lettura a partire dal modo di dire è la disposizione dei termini della frase. Un esempio: lo slogan C’est la vie – C’è la SAI ricalca simmetricamente la frase fatta, senza però escludere il suo contenuto, rafforzato dall’immagine dell’incidente prontamente "coperto" dall’agente della compagnia assicurativa.

Alcuni testi ricalcano poi soltanto la cadenza e l’assonanza del luogo comune. Da "provare per credere" nasce Partire per vivere della agenzia di viaggi Francorosso; da "incredibile ma vero" origina Incredibile ma diesel della Citroën. In alcuni casi si punta all’utilizzo del contenuto del motto, che viene così ad uniformarsi alle caratteristiche del prodotto: è il caso di Diamo al riso quel che è del riso (Curtiriso) che, sostituendo a "Cesare" il genere della merce, tende a ripristinare il significato sociale del motto ("dare a ciascuno ciò che gli appartiene, riconoscere a ciascuno i propri meriti"), come risulta chiaro dalla lettura del copy: la particolare lavorazione ha il pregio di "restituire" al chicco "quantomeno una parte delle sue proprietà originarie". Un caso analogo è quello del Totip, che nella propria pubblicità recupera il classico finale delle fiabe – "…e vissero tutti felici e contenti" – trasformandolo nel simile Felici e vincenti, che ha il pregio di conservare il significato fiabesco trasponendolo nella realtà: per quanto rara, l’eventualità della vincita è difatti concreta ed effettiva.

Come il luogo comune, il proverbio ha origini tanto popolari quanto letterarie, con funzione di volta in volta giocosa, sentenziosa, didattica; l’appropriazione da parte della pubblicità di questo tipo si volge soprattutto al suo lato più ingenuo e accattivante. La modalità standard di questo riutilizzo consiste nella sostituzione di uno dei termini dell’espressione con il nome del prodotto, allo scopo di evocare nella mente del destinatario immagini facilmente memorizzabili. Il significato del proverbio può essere conservato oppure esteso, in qualche misura attualizzato. Un esempio di quest’ultima tecnica è Chi rompe, Attak, dove – mantenendo in parte l’adagio di "Chi rompe paga" – il nome del prodotto viene a coincidere con un significato coerente ma al tempo stesso esuberante rispetto all'originale. Sia il pagare (lezione autentica) che l’incollare (soluzione suggerita dallo slogan) sono in definitiva soluzioni consequenziali all’azione di rompere: il proverbio appare dunque, più che modificato, rinnovato e rivitalizzato.

La popolarità di molti proverbi fa sì che di essi si possa citare anche una sola parola per innescare il meccanismo dell’associazione; il testo Buona besciamella non mente per Parmalat camuffa solo superficialmente "buon sangue non mente" trasponendolo in campo alimentare e suggerendo l’idea di affidabilità del prodotto.

Come la sentenziosità del proverbio, il suo concentrato di verità apparentemente innegabili ne costituiscono la principale caratteristica di "norma", così il suo trasferimento all’interno del messaggio pubblicitario ha l’effetto di conferire allo slogan un tratto di validità e di rigore che consegna all’immaginario del pubblico una garanzia di qualità; garanzia che riposa sulla certezza della tradizione e si basa sull’affidabilità dei valori sperimentati.

      Discorso pubblicitario e strutture del desiderio

Comprendere il significato del concetto di "desiderio" è di fondamentale importanza per la strategia dell’advertising, che sulla desiderabilità della merce – o meglio, sulla capacità di rendere la merce desiderabile e appetibile – costruisce il senso della propria esistenza.

Se il desiderio sia un concetto assoluto, in sé autonomo e risolto, oppure una reazione scatenata da un oggetto particolare è questione da lungo tempo dibattuta; il vocabolario, nel dirci che esso coincide con la

attesa del possesso, del conseguimento o dell'attuazione di quanto è sentito confacente alle proprie esigenze e ai propri gusti,

non fa che riproporre la questione: quelle esigenze, quei gusti esistono indipendentemente dagli stimoli esterni o sono da essi condizionati o addirittura creati? Secondo Marx il bisogno è un fatto squisitamente sociale, determinato dalle dinamiche della lotta di classe e ad esse riconducibile; e il desiderio viene descritto come correlato al bisogno, "appetito della mente" naturale come ogni necessità fisica. In Freud il significato di desiderio si arricchisce di spessore semantico nella misura in cui esso viene spiegato come brama di piacere, come proiettiva ricerca di godimento. Tale ricerca si appunta su oggetti specifici che la nutrono e la rendono inesausta, volta alla realizzazione materiale che, se insoddisfatta, si rovescia nel sogno.

Possiamo dire che il desiderio si concentra nel bisogno di soddisfare una voglia che – il più delle volte – rispecchia un fatto sociale, una questione di moda; e i pubblicitari hanno saputo cogliere con tempestività le tendenze sociali ponendo il messaggio verbale del prodotto in relazione con l’immagine appetibile (spesso in senso proprio, con l’utilizzo di riferimenti alimentari) del desiderio.

La rivista patinata "Il piacere", il cui sottotitolo promette di istruire su "come ottenere il meglio dalla vita", utilizza nella propria pubblicità un copy che recita Una lettura tutta da assaporare, come una rossa, matura ciliegia, dove la sinestesia fra gusto e atto della lettura suggerisce l’idea di un godimento sensuale e insieme intellettuale, mentre l’immagine delle labbra rosse poste vicino a una ciliegia contribuisce a evocare un’atmosfera di "proibito", di desiderio – appunto – la cui soddisfazione dovrà essere fisica e mentale.

Altri esempi, sempre fortemente connotati dal punto di vista visivo, servono a illustrare il valore che all’interno del discorso sul desiderio è rivestito dall’immagine, la cui affidabilità può creare – con maggior forza dell’espressione verbale – seduzione e coinvolgimento emotivo.

Nella pubblicità dello stereo portatile Philips osserviamo una lattina di succo di frutta con l’immagine di mezza arancia e la scritta hi-fi e con due cannucce inserite. La sinestesia è taciuta, ma non per questo meno efficace: la musica offerta dallo stereo è come una spremuta, fresca e piacevole.

Una seduzione di carattere gustativo è anche quella trasmessa dalla campagna della A112, dove l’automobile campeggia in cima a una enorme torta nuziale. Le associazioni si rincorrono: il dolce, oggetto proibito dell’infanzia, è qui associato non solo all’idea della consumazione del cibo ma anche a quella della consumazione del matrimonio. Il copy Per fortuna c’è sempre la mia A112 – rassicura sull’esistenza, sulla desiderabilità, sulla effettiva possibilità di concretizzare il sogno d’amore e insieme il desiderio di benessere economico: lo status sociale è garantito dal rassicurante possesso della macchina non meno che dal possesso di un coniuge.

La seduzione esercitata dall'oggetto, traslato in campo pubblicitario al livello dell'"appetibilità" con lo scopo dichiarato di innescare nella mente del consumatore il meccanismo del desiderio di quel particolare prodotto, funziona se il risultato delle associazioni stabilite è sufficientemente fantastico; se quelle che si suggeriscono essere le connivenze fra la merce e il suo simulacro danno luogo ad una simbiosi accattivante.

L'attrazione deve essere tanto immediata quanto diretta - senza dispersione del desiderio, che deve avere una e ben determinata finalità - approdando con precisione al prodotto; solo attraverso un percorso forzato che dal desiderio in sé giunga al desiderio concreto di una merce - quella che sta alla base del messaggio - è possibile operare la trasformazione, per cui da oggetto utile la merce diventa oggetto desiderabile, e il discorso pubblicitario si fa, da strumento di informazione, veicolo di persuasione.

 

Psicologia della pubblicità

I due concetti-chiave che permettono di comprendere i meccanismi sottili - più o meno inconsci - che muovono i comportamenti d'acquisto sono rappresentati dal simbolo e dalla funzione.

Essi non possono essere disgiunti all'interno di un'analisi degli atteggiamenti assunti dal pubblico di fronte ai messaggi pubblicitari e nei confronti dei beni, materiali e immateriali, che concretizzano l'immagine in cui il consumatore accetta di riconoscersi e che decide di trasmettere all'esterno.

L'unità di simbolo e funzione si realizza come fondamento di un discorso su oggetti e consumo nel momento in cui si evidenzia che il consumo è attuato grazie a motivazioni non legate esclusivamente alla funzione, all'aspetto fisico, materiale ed economico degli oggetti. E' difatti soprattutto la loro connotazione simbolica, la loro capacità di comunicare secondo codici riconoscibili - in definitiva, il loro linguaggio - a rivestire un'importanza decisiva nell'ambito di tale meccanismo.

Se prendiamo in considerazione oggetti appartenenti alla medesima tipologia, che soddisfano lo stesso bisogno (hanno cioè un valore d’uso equivalente) possiamo riscontrare una vistosa oscillazione nei prezzi, che sarà determinata dalla differente qualità dei prodotti, dalla lavorazione più o meno accurata e dai materiali utilizzati. Il concetto di valore d’uso viene affiancato e superato da quello di valore di scambio, che nell’accezione marxiana indica la quantità di tempo lavorato occorrente alla produzione della merce.

La cultura, come del resto lo stesso senso comune, ha assimilato e fatto propria questa visione – strettamente economica – del valore degli oggetti, derivandone la conclusione automatica che questa sia la legge che inesorabilmente presiede alla determinazione del prezzo delle merci. Ma tale meccanismo deve essere in qualche misura corretto da un diverso tipo di considerazioni, slegato dalla dimensione puramente economica; esse si evidenziano in maniera inequivocabile nel caso esemplare delle merci "firmate" - il cui possesso, lungi dall’essere un semplice gesto tramite il quale l’acquirente si procura oggetti di consumo - costituisce semmai una dichiarazione di appartenenza a un certo gruppo sociale.

Il valore d’uso di una merce appartenente al segmento alto del mercato e quello di una delle sue innumerevoli imitazioni sono identici: così una borsa di Louis Vuitton e una sua replica venduta su una bancarella serviranno entrambe allo scopo principale di contenere oggetti. Ma chi acquista una Vuitton non compra tanto una borsa funzionale, quanto e soprattutto un segno linguistico, una comunicazione che veicola un messaggio ben preciso (l’acquirente è una persona disposta a spendere una cifra considerevole e fin spropositata per una borsa; l’acquirente vuole essere parte di un certo ambiente e possedere i crismi che quell’ambiente riconosce come propri).

Ciò che separa l’originale firmato dall’imitazione - determinandone l’abissale differenza di prezzo - è un elemento immateriale e sovraeconomico, qualcosa di fondamentalmente irrazionale: un valore simbolico, astratto , linguistico. In definitiva, un segno o un insieme di segni, una proiezione immateriale.

Per acquisire questo valore simbolico, questo messaggio in codice e l’immagine che l’oggetto veicola il compratore è disposto a pagare una cifra che supera di molto il suo effettivo valore funzionale e il suo reale valore di scambio.

Se gli oggetti prodotti, pubblicizzati e acquistati non si differenziano soltanto in base al loro valore d’uso e al loro valore di scambio – in base, cioè, a considerazioni puramente merceologiche ed economiche – ma soprattutto in relazione al loro valore simbolico, che è piuttosto una categoria del linguaggio, allora la funzione principale della pubblicità non consiste nel fornire una spinta frenetica all’acquisto; o, perlomeno, tale funzione sarà da considerare allo stesso livello di quella, più specificamente linguistica, di rivestire gli oggetti di significati simbolici, unendo alla loro ovvia funzione pratica il "valore aggiunto" della comunicazione sociale.

Dal canto suo, l’acquirente mette in atto dei meccanismi di razionalizzazione volti a rassicurarlo: l’acquisto di un bene in seguito alla suggestione pubblicitaria deve essere privato di ogni connotazione irrazionalmente edonistica per trovare posto in un sistema logico di considerazioni economiche:

Da un lato sembra che ogni società dispieghi un’attività instancabile per penetrare il reale di significazione e costruire dei sistemi semiologici fortemente e sottilmente organizzati, convertendo le cose in segni, il sensibile in significante; e dall’altro, una volta costruiti questi sistemi (o, più esattamente, via via che questi sistemi si costruiscono), gli uomini dedicano altrettanta attività a mascherare la loro natura semantica, a riconvertire il rapporto semantico in rapporto naturale o razionale.

Se il meccanismo sotteso all'acquisto degli oggetti più prestigiosi trova una spiegazione nell'alta carica simbolica e nella pregnanza comunicativa di cui questi - veri e propri creatori di simboli e miti - sono portatori, rimane da chiedersi se - e, se sì, per quali ragioni - quel meccanismo funzioni anche per le altre merci, per gli oggetti più banalmente di consumo, privi di qualunque connotazione "alta" in senso sociale.

Tutti gli oggetti possiedono un valore simbolico, per quanto esso sia variegato e da inquadrare nella fascia economica e sociale all'interno della quale essi svolgono la loro funzione; l'orologio in plastica nera trasmette anch'esso un messaggio, certo assai diverso nei contenuti da quello emesso da un Vacheron Constantin in oro massiccio. Tale messaggio consiste in una dichiarazione di appartenenza: quella di chi si ritiene estraneo alla regola per cui, se si vuole appartenere ad un gruppo socialmente prestigioso, si deve – per esempio - indossare un orologio costoso; quella di chi afferma di essere interessato esclusivamente alla funzionalità del prodotto.

D’altronde tale atteggiamento è speculare al fenomeno della diffusione presso ogni strato sociale dei cosiddetti status symbol, che hanno ormai perduto buona parte della loro funzione originaria in una società – quella occidentale – nella quale il livello del benessere economico si è negli ultimi anni notevolmente accresciuto. Questo – pur parziale – rovesciamento della prospettiva chiarisce che la funzione effettivamente svolta dalla pubblicità è soprattutto quella di trasformare le merci in segni di riconoscimento, gli oggetti in elementi di un codice culturale; ad appropriarsene potrà esserne, in linea teorica, chiunque, anche chi non appartiene "di diritto" al target naturale di destinazione. Attualmente le distinzioni legate allo status sociale, così come i codici segnaletici utilizzati per metterle in rilievo, non sono più validi per definire la classe di appartenenza, concetto divenuto elastico e mobile; occorrono dunque al pubblicitario sistemi linguistici e iconici altrettanto variabili, distinzioni complesse legate al concetto di immagine.

La pubblicità non accentua il consumo di un prodotto esaltandone il valore funzionale (da tutti peraltro conosciuto). Non si vendono più auto in assoluto a causa della (o grazie alla) pubblicità: si vendono invece più modelli di una certa marca in funzione della particolare immagine che la pubblicità è riuscita ad associare a quel modello ed a quella marca. Immagine evidentemente diversa da quella dei concorrenti. […] La pubblicità è diventata la produttrice esclusiva del linguaggio di comunicazione degli oggetti. Linguaggio creato per essere utilizzato e venduto assieme al prodotto ed inscindibilmente da esso.

Se la comunicazione d’immagine trasforma l’oggetto da elemento puramente funzionale in un segno di appartenenza o di distinzione, essa conferisce alla merce un linguaggio, la affranca dal suo originario mutismo; il costo della pubblicità pare dunque coincidere proprio con il prezzo che il consumatore è disposto a pagare per possedere, oltre alla funzione, anche il linguaggio, il simbolo che la merce stessa diventa:

Lo spazio e la dimensione informativa […] esistono, ma sono altrove rispetto alla dimensione ed allo spazio della pubblicità. I consumatori preferiscono invece una pubblicità sincera, che sia scopertamente e fino in fondo se stessa, senza infingimenti […]. Il consumatore dà per scontato l’artificio pubblicitario.

Il destinatario dei messaggi pubblicitari non può essere semplicisticamente una vittima inconsapevole delle strategie dell’advertising: egli sa bene che questa comunicazione – che è parziale, schierata, finalizzata – fa uso di iperboli e di metafore e di tutta la gamma delle figure retoriche allo scopo di catturare la sua attenzione e di provocare in lui una determinata reazione emotiva che si baserà su precise associazioni mentali fra il proprio universo simbolico e la realtà fattuale. Proprio nel meccanismo dell’associazione fra questi due mondi apparentemente separati risiede l’efficacia del messaggio pubblicitario, che è soprattutto riconoscimento anche quando fa appello alla dimensione onirica e fantastica:

There is no such thing as a pure emotional appeal. Emotional ads influence people’s attitudes […] to the extent that the emotion becomes part of the relevant cognitive network and is associated with other concepts. It is these associations that allow the activation of the emotion to spread. […] these emotions must be connected with existing concepts associated with the product or concepts conveyed by the message. The critical element in the emotional appeal is the associability of the emotion, not the mere fact of the emotional arousal.

Il processo di associazione fra oggetto e sentimento, fra merce e dimensione affettiva, non è automatico e spontaneo:

The effects of affect are best accounted for […] by a combination of automatic and interpretive processes wherein the meaning of the affect and the object jointly determine memory, recall, and thinking.

Piuttosto che su una affermazione dettagliata e precisa, rispondente a verità e documentabile – ciò che può essere trovato su un catalogo – il dialogo fra creativi e utenti si basa dunque sul meccanismo della creazione e del riconoscimento di segni, nel quadro di una narrazione romanzesca e perfino mitica; e il mito, né vero né falso di per sé, è semplicemente significativo, cioè carico di valenze simboliche che – a partire da un vocabolario condiviso - rimandano continuamente ad altro, che comunicano incessantemente secondo parametri che sfuggono a una immediata razionalizzazione:

L’uomo è animale simbolico, ed in questo senso non solo il linguaggio verbale, ma la cultura tutta, i riti, le istituzioni, i rapporti sociali, il costume ecc. altro non sono che forme simboliche […] in cui esso racchiude la sua esperienza per renderla interscambiabile: si instaura umanità quando si instaura società, ma si instaura società quando vi è commercio di segni.

 

 

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