ARTE, CULTURA E PUBBLICITA’

 

Cosa può dire un sorriso silenzioso: Monna Lisa e la merce

Pubblicità e poesia: gli stili della persuasione

L’immaginario artistico della pubblicità


 

 

 

 

La lingua pubblicitaria è forte della capacità di creare, riesumare, rivalutare termini provenienti dagli ambiti più diversi, fondendoli disinvoltamente in un crogiuolo che tutto riceve e rielabora con effetti di novità o, al contrario, di riportare alla luce espressioni desuete facendole però rivivere su di uno scenario inconsueto.

Spesso il pubblicitario attinge a lingue nobili, come il greco antico e il latino, allo scopo di conferire al prodotto reclamizzato un alone di importanza e di renderlo accettabile di per se stesso da parte di un pubblico in larga parte privo degli strumenti culturali per comprendere il senso reale degli slogan.

Le parole autentiche perdono, per questa via, qualunque contatto con il loro significato originale, e servono unicamente a riverberare sulle merci valori latenti di autenticità e di esclusività:

ecco allora le lettere dell’alfabeto greco: ‘Alfa’ indica un tipo di collirio e una serie di veicoli, ‘Beta’ designa un modello di motociclette ed uno di automobili, ‘Omega’ una marca di orologi.

Per quanto riguarda il vastissimo capitolo del saccheggio operato ai danni dell’espressione artistica di ogni tempo e genere, un esempio assai significativo è costituito dal rapporto di parassitismo del linguaggio pubblicitario nei confronti del futurismo.

Questa corrente artistica si è prestata assai facilmente a numerose operazioni di repêchage e di riutilizzo in forza della sua intrinseca valorizzazione del nuovo, della modernità come valore assoluto e grazie alla predilezione dei futuristi per le forme linguistiche ibride.

Le tensioni linguistiche, il macrouso, l’iperfunzione e la maxiespressività dell’esperienza pubblicitaria si manifestano anche in prolungamenti e rafforzamenti grafico-fonici di vocali e consonanti (Super Wafer Maggiora. Frrriabilissimo; Tintall lllavabile), che trovano precedenti negli scritti dei futuristi.

Marinetti, nel suo Zang Tumb Tumb, inventava fra l’altro nel 1914

tutti gli occhi dei forti occhieggiare strizzzzare frastttuono delle loro palpebre.

E nella prefazione al volume che raccoglieva l’intero corpus poetico di Marinetti, Aldo Palazzeschi scrive parole illuminanti e decisive a proposito del rapporto fra poesia e réclame che il più noto dei futuristi aveva prefigurato e pienamente compreso con decenni di anticipo:

Marinetti aveva capito fin da allora il potere della pubblicità che doveva raggiungere fatti e persone a tutte le profondità e a tutte le altezze, nessuno escluso della compagine sociale, e riservata allora esclusivamente per le Pillole Pink, il cerotto Bertelli e la Chinina Migone, usarla per i problemi dello spirito era ritenuta dai benpensanti tale ignominia per cui nessun vocabolario possedeva una parola infamante per poterla degnamente qualificare.

Strategia diversa dall’utilizzo di un determinato stile e dalla rielaborazione di canoni consacrati da una corrente artistica è quella che si limita a riproporre allo spettatore immagini universalmente note costruendo loro intorno un messaggio che può esservi collegato in maniera più o meno esplicita, sì da suscitare il desiderio di elevarsi culturalmente alle altezze evocate dall’icona o da indurre, al contrario, un brusco rovesciamento di piani e di valori, attraverso un utilizzo ironico dell’immagine artistica.

Uno dei "marchi" più conosciuti ed al tempo stesso utilizzati dalla pubblicità è senza dubbio quello della Gioconda di Leonardo da Vinci, simbolo di fascino e di mistero e al tempo stesso evocatore di un’atmosfera di nobile eleganza; si tratta dunque di un’icona ideale per l’advertising, utilizzabile virtualmente per qualsiasi prodotto e garanzia di sicuro successo per qualunque campagna pubblicitaria, irriverente o intellettualistica che sia.

La figura di Monna Lisa è divenuta oramai mitica, immagine ideale della donna saldamente impiantatasi – grazie, per l’appunto, anche al meccanismo pubblicitario – nell’immaginario collettivo:

essa, al di là [delle] reali difficoltà d’identificazione del personaggio, assurgerebbe a simbolo di donna al di sopra di ogni sospetto, in cui le qualità femminili sono quasi sempre coincidenti con le qualità del prodotto pubblicizzato.

Così, paradossalmente – almeno in apparenza – la donna dal sorriso enigmatico e appena accennato diventa il testimonial più adatto per un dentifricio (Lacalut Smile) che finalmente la libererà dai problemi che per secoli le hanno impedito di mostrare i denti; o potremo vederla affaccendata intorno al forno Fittings nelle vesti di casalinga esperta ma anche elegante, mai sciatta, pronta a trasmettere ad un accessorio fra i più quotidiani tutta la propria aura di bellezza e di perfezione, ed al tempo stesso valorizzata a sua volta dall’utilizzo di un elettrodomestico che si fa portatore dei valori della tradizione e dell’affidabilità.

La campagna pubblicitaria più nota e più recente che abbia sfruttato l’immagine della Gioconda è quella dell’acqua Ferrarelle, effervescente naturale, che proprio sull’elemento della naturalezza e della purezza fa perno:

la natura da simbolica diventa metaforizzante; la forza vitale dell’acqua, purificatrice e fertilizzante, richiama e rimanda, attraverso la serialità delle tre diverse acconciature – quella ‘liscia’, quella a riccioli ‘gassata’, e quella originale ‘naturale’ – alla purezza dell’acqua in questione e della sua effervescenza naturale.

Si parte in questo caso dal presupposto che la comparazione sottintesa con le altre acque (per l’appunto, quelle lisce e quelle gassate) si mantiene nell’ambito di un rispettoso paragone – il paesaggio fluviale sullo sfondo rimane infatti immutato in tutte le versioni proposte – lo specifico del messaggio risiede nelle trasformazioni della capigliatura di Monna Lisa: essa risulta modificata nelle prime due variazioni, per tornare allo stato naturale solo nel momento in cui la si associa all’acqua pubblicizzata.

Solo Ferrarelle, è il messaggio, restituisce al quadro la sua originale perfezione estetica, poiché solo Ferrarelle presenta il giusto grado di effervescenza - e di naturalezza – che garantisce il pieno rispetto dell’organismo e, in senso lato, dell’armonia naturale.

Il travestimento dell’originale leonardesco si propone in questo caso di mettere in dubbio il gusto, e di conseguenza di mettere in crisi le scelte, del consumatore. La forza del messaggio si basa sulla certezza che il destinatario non può non riconoscere la Gioconda come un’opera altamente raffinata e preziosa, di estremo equilibrio spirituale ed espressivo: modificandone l’acconciatura, questo equilibrio, fino ad ora scontato, viene ad essere deturpato da una nota dissonante e quasi sacrilega. "I capelli della Gioconda sono

‘trattati’ […] come segni esattamente come il cappello di Napoleone o il seno di Marilyn altrettanto presenti nell’immaginario collettivo:

nella versione originale, che conclude lo spot con il tranquillizzante ritorno alla Monna Lisa che tutti conosciamo, il quadro è ricollocato nella sua dimensione "giusta". E lo spettatore-consumatore può ritenersi soddisfatto: vede infine riconfermata la validità del suo gusto – che è poi quello universalmente riconosciuto e celebrato – che lo colloca nella categoria di coloro che amano l’arte e le cose autentiche e non adulterate, ben distante dagli incolti che non apprezzano la bellezza e si accontentano di una versione anonima, sciatta, liscia; e ugualmente estraneo alle esagerazioni di coloro che prediligono, insieme con un’arte esaltata e distorta, un’acqua gassata e probabilmente dannosa.

L’aspetto di creatura di indefinibile e inafferrabile fascino, (unito all’atmosfera di mistero che ha sempre presieduto la sua identificazione) con cui la Gioconda è inscindibilmente identificata – una donna non giovanissima ma neppure vecchia, non sguaiatamente allegra ma neanche triste, decisamente affascinante ma certamente non bella secondo i canoni a noi contemporanei – si presta ad identificarsi con tutto e con il contrario di tutto:

diventa con facilità lo specchio in cui ciascuno può riflettersi, cercarsi, individuarsi o ritrovarsi.

Per queste ragioni l’immagine leonardesca è frequentemente scelta per lanciare i prodotti più diversi, magari utilizzata al posto della canonica bella ragazza – scelta, questa, fra le più rassicuranti ma anche rischiose, poiché evidentemente diretta a sollecitare l’interesse di un pubblico prevalentemente maschile – o di opere d’arte più recenti: la Gioconda piace senza inquietare, ha tratti assai gradevoli anche per il gusto dell’uomo moderno di media cultura – a differenza, per esempio, di un quadro astratto, o di un figurativismo moderno che stravolgono linee e prospettive – e, cosa di fondamentale importanza, anche il pubblico femminile può esserne attratto. Il tutto, bisogna sottolinearlo, senza che la presenza dell’icona artistica si imponga con una forza tale da far passare in secondo piano la merce reclamizzata; se un quadro di Francis Bacon parlerebbe soltanto ad una ristretta fascia di pubblico, rischiando inoltre di distogliere l’attenzione dal prodotto a causa della violenza espressiva che promana dalle opere di questo pittore, la donna di Leonardo riesce a lusingare il sotterraneo snobismo di un pubblico vastissimo e si associa con facilità al concetto di familiarità e di rassicurazione proprio in virtù del suo essere oramai parte integrante di un immaginario allargato, vocabolo ben noto di un lessico universale, elemento di una storia tante volte riletta: pur nei tanti travestimenti cui essa viene sottoposta (ed a cui, peraltro, si adegua con docilità: dalla casalinga soddisfatta alla giovane donna spregiudicata), Monna Lisa risulta, al pari di una grande attrice, sempre riconoscibile e sempre infinitamente superiore a qualsiasi operazione di snaturamento.

In un campo che fa della pretesa di originalità e di novità il proprio credo principale ed il proprio mito-guida, il successo di una immagine carica di anni e di passato prestigioso dice che proprio la sapiente fusione fra nuovo e tradizione è la chiave per giungere più direttamente alle corde più sensibili dei potenziali acquirenti. Temperare le spavalde affermazioni di novità con il ricorso alla garanzia di un testimonial consacrato dai secoli sembra dunque la strada migliore per attestare l’effettiva affidabilità di un prodotto e per rassicurare al tempo stesso il consumatore sulla sua immutata capacità di scegliere solo ed esclusivamente ciò che vale: oggetti di prestigio ma anche di solida sostanza, articoli che non sacrificheranno mai al pur inevitabile e auspicabile trionfo del progresso la tradizione e la sapienza – sia essa artigianale o artistica - che sola è garanzia di affidabilità e di serietà.

 

Pubblicità e poesia: gli stili della persuasione

La pubblicità che appare di preferenza sulla stampa periodica ha la possibilità di agire su piani diversi e paralleli, quello dell’immagine e quello della parola. Ma se le immagini offrono una gamma limitata di scelte – la collocazione, il taglio, la prospettiva, la valorizzazione o la messa in ombra di determinati particolari – le parole possono essere piegate ad una quantità virtualmente illimitata di soluzioni. Da una prima, oramai lontanissima fase in cui il prodotto doveva essere semplicemente illustrato, magari mettendone in risalto le caratteristiche più attraenti e funzionali, l’advertising si è evoluto verso una vera e propria retorica della composizione.

Gli stili del racconto e della poesia vengono trasferiti e adattati alle esigenze della réclame attraverso una attenta selezione di procedimenti espressivi che comprendono l’attenzione al ritmo, alle rispondenze sonore, alle simmetrie della frase. La tecnica poetica è frequentemente imitata anche per accompagnare prodotti di scarso fascino e per raggiungere un pubblico di limitate conoscenze culturali: nella grande maggioranza dei casi, in effetti, l’artificio poetico è – pur nella estrema raffinatezza che ne caratterizza l’uso da parte dei pubblicitari – volto a sedurre l’orecchio piuttosto che a richiamare alla mente vere e proprie risonanze ed eco riconoscibili.

La poesia verso la quale si orientano molto autori di pubblicità è quella moderna, libera dal logicismo, dalle cadenze fisse e dalle rime obbligate, caratterizzata dalla metaforica pregnanza dei vocaboli, dall’apparente spontaneità e dalla infinita variabilità dei ritmi, per giungere talvolta fino ad uno esasperato sperimentalismo che si ricollega alle esperienze più avanzate della lirica contemporanea. Niente di simile, quindi, alla accattivante facilità di una manierata poesia familiare, fatta di rime baciate e di settenari che, più che imitarla, riuscivano a fare della vecchia pubblicità una

vera parodia della poesia stessa: ‘Sento in bocca un pizzicore / un sapore mai provato / ed il bacio dell’amore / è più fresco e profumato’; ‘Euchessina Euchessina / tu sei dolce come il miel / tu dell’egra umanità / sei l’amica più fedel’.

Molti messaggi, soprattutto quelli diffusi attraverso la stampa destinata ad un lettore di cultura medio-alta, utilizzano in maniera scoperta le tecniche e le atmosfere rarefatte della prosa d’arte e della lirica del primo Novecento, evocando un’aura di vaga malinconia o comunque di raffinato estetismo. E’ il caso della pubblicità delle Piccole Guide Mondadori (qui si tratta di quella destinata ai dilettanti di fotografia), manualetti tecnici le cui pretese di perfezione sono senz’altro inferiori a quelle suscitate dalle parole che ne decantano i meriti:

La foto non è riuscita.

Non ritroverete quell’attimo

Che credevate di aver fermato.

Come rise spontanea lei

In quel momento

Come il gatto saltò

E il bambino corse.

Come la luce filtrava fra gli alberi

Sul suo viso. Fotografare?

Credevate che fosse facile,

che una buona macchina

bastasse a fare un buon fotografo.

Non era vero…

Il modello cui questi "versi" si rifanno sembra essere quello, caratterizzato dall’uso abbondante di enjambements, di pause interne, di finali sdrucciole, della poesia novecentesca della migliore tradizione italiana. Ma non è individuare il singolo poeta o la singola corrente letteraria che conta, dato anche il mediocre tasso di cultura non puramente scolastica che caratterizza la gran parte del pubblico destinatario del messaggio; anzi, introdurre una sfida al lettore perché riconosca la marca stilistica delle slogan sarebbe decisamente controproducente. E’ piuttosto l’evocazione di un’atmosfera, di un mondo, di una figura collettiva che riunisce e mescola indistintamente D’Annunzio a Ungaretti, Pascoli a Saba, Gozzano a Montale a Quasimondo - per giungere, nei casi più avventurosi, fino a Gadda, Sereni, Pasolini, addirittura all’avanguardia di Sanguineti – a formare un simbolo confuso ma appagante di elevazione culturale.

La lingua della pubblicità non si limita però al ripescaggio di modelli oramai consacrati, ed anzi si spinge – nella ricerca incessante e spesso intelligentemente sensibile alle sollecitazioni estetiche e culturali più innovative – a sfruttare le potenzialità della poesia meno convenzionale e rispettosa dei canoni stilistici accettati dalla tradizione. A partire dall’esperienza futurista, cui si è fatto cenno, per giungere a quella delle neoavanguardie, gli slogan privilegiano quegli stili che più si prestano ad esprimere vitalità e vitalismo, moderne elegie del tecnologico e del nuovo.

I creatori di brani pubblicitari guardano dunque con attenzione alle evoluzioni della letteratura contemporanea: mutuano gusti, spunti, tecniche, poetiche – come quella del frammento e del collage – da poeti e scrittori per arrivare a creare una vera e propria poesia/prosa pubblicitaria, autonoma e indipendente dalla sua fonte di ispirazione.

D’altra parte, se la poesia della pubblicità non può configurarsi che come sottoprodotto di quella "vera" perché da questa essa nasce, bisogna registrare anche il verificarsi del percorso inverso – si veda per esempio il caso dei poeti neoavanguardisti del Gruppo ‘63, che nelle loro composizioni hanno spesso trasposto materiale pubblicitario nel contesto artistico: il prodotto industriale, la merce, da oggetto celebrato dalla poesia ne diventano ispiratori e fonti.

E’ vero che, nel momento della trasfigurazione da merce in oggetto poetico, il prodotto industriale in qualche modo viene depurato dalla originale funzione strumentale per assurgere a valore simbolico e lirico; d’altra parte il legame fra arte e pubblicità, facendosi sempre più stretto, rende spesso difficile scindere i livelli – quello commerciale e quello creativo – sancendo la definitiva fusione dei due mondi e la loro reciproca funzionalità.

Alla fine degli anni Sessanta alcuni fra i più famosi pittori italiani – fra i quali Guttuso, De Chirico, Sassu, Cassinari, Morlotti – hanno dipinto per la campagna pubblicitaria del brandy Stock 84 una serie di dodici quadri nei quali la bottiglia oggetto della réclame è sempre collocata in primo piano. Queste opere hanno dunque funzionato, anche se in modo particolare e da un’altezza inconsueta, da manifesti pubblicitari apprezzabili da un certo pubblico medio, non ignaro del nome degli artisti.

Questi dipinti si potranno davvero assimilare ai manifesti? Soprattutto, li considereranno tali i posteri? O, considerandoli opere d’arte, possiamo dire che in essi manchi il messaggio pubblicitario, se vi campeggia in primo piano la bottiglia di Stock 84?.

Il problema, assai ingombrante, dell’autonomia dell’artista coinvolto nel sistema delle merci e nel conseguente processo di reificazione dell’opera d’arte non è certo nuovo, poiché la produzione artistica è sempre stata produzione su commissione e spesso sottoposta ai gusti e alle esigenze del committente. L’artista ha sperimentato solo in tempi recenti (a partire dal Rinascimento) una certa autonomia, legata all’esistenza di un pubblico più vasto e interessato alle evoluzioni dell’arte. Convivere con la consapevolezza della propria sottomissione alle regole del mercato è stato possibile anche grazie a processi di adattamento e di sfruttamento di nicchie di libertà: l’opera d’arte ha sempre cercato un doppio pubblico – da una parte quello costituito dalla committenza, dall’altra quello di chi ne avrebbe apprezzato, al di là della forma imposta, il messaggio creativo.

Del resto, questa scissione del creatore fra compromissione con il mercato e purezza del gesto artistico è da considerare oramai obsoleta, o perlomeno spesso trattata con modalità critiche banalmente moralistiche. Piuttosto che vedere la creazione come atto intangibile dalla quotidianità, sarebbe sensato attribuirle un ruolo di volta in volta coerente con le circostanze e con il grado di sviluppo della società in cui essa si manifesta.

E’ la stessa tradizione del manifesto italiano che in quest’occasione potremmo chiamare in causa, con le opere che da inizio secolo fino agli anni Cinquanta Dudovich, Cappiello, Terzi, Sacchetti, Depero e Longanesi producono per una pubblicità che non conosce per il momento la concorrenza.

Ma quella stessa tradizione, quei segni raffinati non hanno lasciato una significativa impronta – né sul piano dello stile, né su quello della concezione del rapporto fra arte e pubblicità – nel mondo dell’advertising italiano che, al contrario di quello statunitense, avrebbe potuto giovarsi di una via già abbondantemente tracciata.

Difatti

Marinetti, Palazzeschi, Depero e molti altri futuristi, servendosi della scrittura, della grafica, dell’immagine, dell’architettura, del design, ci mostrano che tra gli anni Dieci e Trenta l’avanguardia aveva scoperto le nuove regole della comunicazione in una civiltà dominata dalla velocità, dalla simultaneità e dalla modernolatria: il rapporto stretto tra bellezza e tecnologia; l’importanza della ‘trovata’; il vissuto del prodotto. Un’arte ‘destinata non ai musei ma alla strada. Nel 1931 Depero scrisse: ‘L’arte dell’avvenire sarà potentemente pubblicitaria’;

e tutto ciò avveniva ben prima del sistematico connubio fra mondo del marketing e mondo dell’inconscio che, elaborato dal Surrealismo, sarà poi saccheggiato dai pubblicitari.

Un esempio relativamente recente di come la pubblicità abbia saputo mutuare i mezzi e i linguaggi artistici pur senza pretendere un riconoscimento apparentemente impossibile da parte dell’estabilishment critico è costituito dall’attività di Armando Testa, i cui quadri e manifesti sono evidentemente influenzati dai moduli dei cubisti (Braque, Picasso, Gris), dei surrealisti (Dalì, Magritte, Tanguy) e dei costruttivisti (Malevic, Mondrian).

Quando, negli anni Sessanta, pop art e op art si affacciano sulla scena artistica internazionale, Testa ne utilizza con ironia le suggestioni pur mantenendo un proprio tratto essenziale e quasi astratto. Le sue campagne più famose rimangono nella storia della pubblicità, se non in quella dell’arte: dal digestivo Antonetto all’aperitivo Punt e Mes, dall’Euchessina allo storico "carosello" per la Lavazza.

 

L’immaginario artistico della pubblicità

Il tono elevato che caratterizza almeno in parte il messaggio che si confronta con l’opera d’arte in qualsivoglia modo citata o richiamata si sostanzia talvolta nella ricerca di elementi lessicali preziosi e circonfusi di un’aura di letterarietà. Si tratta di uno stile in qualche misura elevato e sostenuto, che tende ad esprimersi attraverso un vocabolario scelto e ricco di immagini poetiche e inconsuete per il parlato quotidiano. L’ammiccamento al mondo dell’arte può dunque limitarsi alla proposizione di un’immagine (come nel già citato caso dell’acqua Ferrarelle o in quello della penna Tratto Pen, che utilizza anch’essa, fra le altre, la figura della Gioconda) accompagnata da slogan assolutamente banali – dove con questo aggettivo si indicano espressioni prive di caratterizzazioni particolari e improntati soprattutto alla semplicità ed a trasgressioni solo lievi della sintassi; in altri casi, invece, la ricerca di uno stile elevato sostanzia lo slogan, a cercare un impatto forte sul destinatario e sul suo limitato vocabolario.

Dai casi di semplice utilizzo di parole raffinate o mutuate da lingue estere al posto di termini equivalenti ma più banali (propulsione invece che spinta; concepire invece che inventare; nuance invece che sfumatura, performance invece che prestazione, test invece che prova, ecc.), il pubblicitario è consapevole di poter attingere i mezzi per produrre effetti di ricercatezza da

quel grande serbatoio sperimentale costituito dalle avanguardie artistiche (storiche o contemporanee), e in seconda istanza addirittura […] da tutto il patrimonio esistente nella letteratura, nelle arti, nella musica.

Una analisi non superficiale suggerisce, come già ricordato, che l’imitazione – per quanto letterale – e l’assunzione dei tratti distintivi di una determinata poetica – per quanto effettuata secondo procedure mimetiche – non mantengono mai i caratteri originali, o non li conservano completamente, ma vengono piuttosto riproposti predigeriti e pre-elaborati, come simbolo già confezionato ed etichettato sotto le didascalie più adatte: bellezza, suggestione, diversità, raffinatezza, misticismo.

Così potremo ritrovare

Quasimodo, Ungaretti e Montale riproposti in chiave di consumo di gelati, impianti di riscaldamento, spumanti nazionali; Manzoni, Leopardi, Petrarca e Dante riferiti alla ‘poesia’ di un liquore, alla ‘dolcezza’ di un pacchetto di caramelle, alla ‘eternità’ di un gioiello.

Anche il registro visivo si giova di questo meccanismo di riproposizione in altro contesto: è frequente osservare l’utilizzo di tecniche di ripresa particolari, funzionali ad una narrazione e ad una descrizione, passaggi narrativo-cinematografici senza che la "storia" li richieda o perlomeno li giustifichi.

Si può dunque sostenere che in molti casi il tono elevato sembra essere più che altro uno scopo fine a se stesso, rappresentato dai simboli di ciò che – nell’immaginario collettivo – corrisponde alla nozione di "artistico" e "raffinato".

Una lettura particolarmente approfondita del messaggio pubblicitario nelle sue sotterranee relazioni con il lessico dell’arte porterebbe alla scoperta di collegamenti tanto saldi quanto apparentemente superflui: quando si individua l’influenza della pittura e del clima culturale del Medioevo sulla pubblicità di un succo di arancia, si effettua una analisi che applica il metodo filologico della explication de texte allo slogan – il quale, come forma dell’espressione e della creatività linguistica, non demerita un simile rigoroso trattamento – il quale, tuttavia, esula dai confini metodologici di questo lavoro.

Basti allora rimarcare che gli espedienti linguistici e visivi dell’advertising non sono mai indipendenti da una costruzione teorica che, sebbene rimanga occulta al consumatore finale, tuttavia proietta sul suo immaginario una quantità indefinita di echi e di richiami.

Quanto poi questi vengano fruiti in piena consapevolezza è facile immaginare; rimane però il fatto che non è mai senza scopo che l’eredità culturale di una o più civiltà vengono assunte e riproposte dai creatori di pubblicità.

La familiarità, anche solo accennata, del contesto rimane l’elemento fondamentale; per quanto sconosciuta ai più, la tradizione artistica o poetica costituisce un background cui la lingua pubblicitaria non è disposta a rinunciare.

 

    1. Modelli culturali e rappresentazione pubblicitaria

La pubblicità riproduce, mentre ricostruisce il mondo del prodotto e il contesto del consumo, comportamenti e movenze della quotidianità: gli "small behaviours" connessi con le attività più consuete come il mangiare, bere, truccarsi, vestirsi, recarsi al lavoro, conversare. Queste rappresentazioni possono divenire molto precise ed elaborate, fino a dipingere un vero e proprio dipinto della realtà quotidiana di una comunità più o meno estesa e dunque a divulgarne i modelli culturali. Questo concetto, assai vasto, viene a collegarsi con il prodotto descritto dalla pubblicità in un quadro che tende ad autoriprodursi: i mondi della merce e della sua fruizione creano infatti un contesto che, pur se mediato dal cliché, intrattiene importanti rapporti con la realtà, verificabili nella riproduzione di gesti e atteggiamenti che richiamano a loro volta una rete di rapporti interpersonali.

Negli spot che reclamizzano il consumo della birra regna sovrano – soprattutto nella cultura anglosassone – il mondo del pub con la sua ambientazione working class, dove gli avventori bevono in gruppi, in una sorta di cameratismo strettamente maschile (la donna è ammessa solo nel ruolo di richiamo sessuale). Alcuni esempi. In un interno oscuro, forse una fabbrica, un gruppo di uomini canta una canzone di buon compleanno e offre al festeggiato una birra Toby: An honest pint, with charachter. A pint you can trust, Des. See to it, then [cantano For he’ a jolly good fellow]. Trust Toby. Good honest bitter.

Un altro spot per la stesso prodotto, ambientato nello studio di un pittore che sta dipingendo un quadro nello stile di Picasso. Il colloquio è fra il pittore e Desmond, il protagonista dello spot precedente, operaio con forte accento cockney.

[pittore] Is it genuine?

[operaio] ‘Course it’s genuine. It’s Toby. Honest, good charachter. You can’t fake a Toby.

[pittore] And you can’t spell Picasso.

[operaio] Trust Toby. Good, honest bitter.

L’immedesimazione con un certo ambiente culturale può ottenersi con mezzi del tutto tradizionali: una canzone dal jingle accattivante, una coreografia piacevole, un ritmo incalzante. Nella pubblicità dei prodotti destinati soprattutto a un pubblico giovanile l’imitazione del linguaggio del musical e del viedeo-clip è piuttosto frequente, ma il repertorio dei generi cui l’advertisement attinge è ben più vasto: il cinema (con i film d’amore, d’orrore, di fantascienza, di guerra), la situation comedy, il talk-show, il notiziario, l’intervista, il carone animato, il documentario. In un gioco incessante di associazioni, è lo spettatore stesso ad annodare i fili sospesi, a completare le citazioni, a riempire i vuoti narrativi con il vocabolario di cui dispone.

L’offerta di brandelli e di abbozzi di generi narrativi invita il consumatore a completare la storia, una volta che la sua partecipazione e la sua curiosità sono state sollecitate e forzate a entrare nel gioco della ricostruzione. Si vedano le frammentarie sequenze che compongono il romance campestre trasmesso in televisione per il deodorante Impulse, con una struttura simile in tutta Europa. Il cliché narrativo ricalca gli stereotipi del genere romantico – la ragazza, l’artista, la campagna, l’inseguimento, l’offerta del pegno d’amore (in questo caso un mazzo di fiori) – mentre la voce off descrive, illustra, conclude: Impressions. From Impulse. The all-over body spray. So irresistibly romantic, men just can’t hel acting on it. When a man you’ve never met before suddenly gives you flowers, that’s Impressions, from Impulse [appare la sovrascritta Impressions. From Impulse].

Il prodotto, esca amorosa, contiene una promessa di felicità; la funzione di spianare la strada verso un destino di benessere e gioia è svolta dal prodotto anche nello spot trasmesso alla televisione inglese per le lamette Gillette, dove è il ritmo della canzone di sottofondo a scandire le fasi della storia: la rasatura davanti allo specchio, l’incontro con la donna, la seduzione, l’innamoramento:

Are you ready? To get closer. Getting ready.

Gillette Blue Two. Two blades shave you.

Shave you closer. Let’s step into the blue.

Gillette Blue Two.

[scritta in sovraimpressione] Step into the Blue.

In questo caso le parole giocano sulla polisemia di closer (get closer, shave closer) e di blue (il colore della confezione, il nome del prodotto, lo sfondo, il mondo della promessa, la libertà). Il pay off finale evoca una retorica del colore blu, che pare aver assunto una nuova connotazione: dalla tradizionale connessione con il concetto di nostalgia, esso vanta ora un carattere di vivacità, di sensualità e giovanile entusiasmo.

I modelli comunicativi, i modelli culturali che abbiamo brevemente illustrato nella loro applicazione alla pubblicità televisiva intrattengono con i fenomeni sociali

una relazione più stretta di quanto non appaia in superficie, dal momento che una caratteristica della pubblicità, nella sua vorticosa ricerca del nuovo e del sensazionale, è di macinare ogni altra esperienza espressiva, promulgando e sanzionando stilemi e, con essi, miti. […] Il punto comune è il prodotto che si consuma [come nello spot dell’aperitivo Martini Rosso] ‘any time, any place, any where’. Se i miti sono diversi, si alternano e si cumulano, la iper-ritualizzazione è una sola: il consumo.

 

 

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