PER UNA STORIA DELLA PUBBLICITA’

 

Una società nuova

Tra figurine e manifesti: le prime immagini della pubblicità

L’avventura della ricostruzione: dalla retorica fascista alla radio, dai rotocalchi a Carosello

Marketing e scienza della pubblicità

Gli anni Settanta: l’audacia al potere

Gli slogan del "riflusso"

 

 

La pubblicità nasce con l’avvento della stampa e con il consolidarsi dell’industria. Nel momento in cui all’artigianato si sostituisce il sistema industriale – che non comporta più la corrispondenza della figura del produttore e quella del venditore della merce – le vendite dei prodotti non avvengono più nella bottega di produzione o nelle fiere presso cui il mercante piazza la merce, ma hanno luogo contemporaneamente in decine e decine di negozi di una medesima provincia, per poi diffondersi alle migliaia di negozi di una nazione, e oltre.

L’origine della pubblicità coincide dunque con la separazione fra produttore e compratore, ma – prima ancora, verso la fine del quindicesimo secolo - con l’utilizzo della stampa a caratteri mobili che iniziò a diffondere notizie e informazioni sui prodotti, in particolar modo libri.

L’invenzione di Gutenberg è tuttavia ritenuta a lungo soprattutto un mezzo puramente intellettuale; saranno necessari tre secoli perché si realizzino le condizioni necessarie alla nascita della pubblicità moderna. Nel Seicento le gazzette si sostituiscono agli avvisi monografici e fanno per la prima volta dell’informazione un genere completamente separato dalla letteratura; il Settecento vede il sorgere in Inghilterra della moderna società industriale e la riduzione della produzione artigianale; nell’Ottocento l’utilizzo del vapore dà impulso alla rivoluzione industriale e contemporaneamente a mezzi di trasporto più veloci e a macchine per la stampa più efficaci, tutti strumenti che favoriscono una copertura via via più capillare delle reti di informazione.

Ma il vero momento di passaggio da una "paleopubblicità" - puramente informativa dell’esistenza e della disponibilità di determinati beni e servizi per una particolare fascia di pubblico – ad una pubblicità organizzata secondo criteri specificamente pedagogici, messaggio diretto alla fascinazione delle masse di consumatori potenziali, si verifica soltanto con il passaggio dal XIX al XX secolo: è allora che si misurano gli effetti della incipiente trasformazione della società da agricola a industriale, e che le forze opposte del capitalismo industriale e del sindacalismo di marca socialista si scontrano e contemporaneamente si confrontano in una lotta che porta, almeno in certi casi, al miglioramento del livello di vita del proletariato e della piccola borghesia.

Nel corso del nostro secolo l’economia, da sistema che serve un mero bisogno di sopravvivenza, diventa economia dei consumi e, nei ceti privilegiati, addirittura di godimento; si crea dunque il bacino ideale per un sistema pubblicitario sempre più raffinato e articolato.

La prima pubblicità a stampa nasce come informazione di servizio – quella che nei quotidiani contemporanei viene classificata come "piccola pubblicità" – in Francia, grazie all’iniziativa di Théophraste Renaudot, che nel 1630 crea il Bureau d’adresses et de rencontres. Si tratta di un ufficio dove chi offre o cerca beni o servizi di qualsiasi natura lascia un biglietto con la descrizione dell’oggetto, del lavoro o del servizio cercato o offerto.

L’esempio di Renaudot – oltre ad avere un successo secolare: nel 1960, a Milano, era tuttora in attività un ufficio del genere – viene presto seguito fuori dei confini francesi: nel 1658 nascono in Inghilterra alcuni uffici simili al Bureau, ma già alcuni anni prima erano sorti settimanali specializzati in annunci di servizio (fra i quali "The Public Advertiser"). In Italia il Settecento è il secolo in cui vengono stampati bollettini a metà fra l’informazione economica per specialisti e gli annunci di pubblica utilità, fra i quali cominciano presto a comparire avvisi propriamente pubblicitari. Le città più sensibili a queste nuove necessità sono, naturalmente, quelle dalla più spiccata vocazione commerciale e mercantile: Firenze, Napoli, Venezia. Se nel 1770 viene pubblicata per la prima volta a Firenze "La Pandesia Fiorentina" - lontana antenata degli odierni periodici di annunci "Secondamano", "La Pulce", "Porta Portese" – quattro anni dopo "Il Gran Teatro Italiano" riferisce su

il commercio in tutta la sua estensione dettagliando le circostanze delle rispettive Piazze, de’ generi, de’ loro prezzi, notando dove più abbondino, o dove più scarseggino.

Le caratteristiche di giornale economico che ospita anche piccola pubblicità si ritrovano nel napoletano "Diario notizioso", pubblicato già dal 1759 con notizie di carattere commerciale e con annunci inseriti gratuitamente; nel veneziano "Notizie dal mondo" – che esce a partire dal 1770 – l’informazione economica è invece di carattere quasi esclusivamente marittimo. Infine, nel 1801, a Milano, Giuseppe Lattanzi dà vita al primo quotidiano di informazione commerciale, il "Colpo d’occhio giornaliero sulla città di Milano, ossia annunzio di economia, arti e commercio".

Il XIX secolo segna il passaggio a forme moderne di pubblicità, che hanno modo di esplicarsi e svilupparsi grazie al radicamento degli effetti della rivoluzione industriale. Il giornalista francese Emile de Girardin è il primo a capire – e a mettere a frutto la propria intuizione – che, se la diffusione di un giornale può aumentare grazie alla diminuzione del suo prezzo di vendita, quest’ultimo può essere ottenuto scaricando sugli inserzionisti pubblicitari (quegli stessi che nei settimanali specializzati prima citati potevano farlo gratuitamente) buona parte delle spese di gestione.

Ma l’intuizione geniale di de Girardin consiste soprattutto negli sviluppi che essa produce. Egli decide infatti di unire ciò che fino ad allora era stato mantenuto rigidamente separato: non più le notizie dal mondo politico e da quello dell’arte e delle lettere su certi giornali, e le informazioni economiche e gli annunci pubblicitari su altre pubblicazioni. Politica, letteratura, scienza, moda e cronaca dovranno d’ora in avanti convivere, ed accompagnarsi alla pubblicità, all’interno di uno stesso giornale. Nel 1836 de Girardin inizia a pubblicare "La Presse", la cui quarta pagina è totalmente occupata da annunci pubblicitari (collocazione che passerà anche nei quotidiani italiani). Le reazioni scandalizzate che accolgono l’iniziativa sono la dimostrazione della sua carica innovativa, ma sono anche destinate ad affievolirsi con rapidità, vista l’inarrestabile progressione della comunicazione pubblicitaria.

L’Esposizione internazionale delle arti e delle industrie, che si svolge a Londra nel 1851, è accompagnata da una guida che è anche il primo catalogo illustrato di prodotti della storia. Contemporaneamente nascono i primi grandi magazzini, che utilizzano le vetrine per esporre i prodotti che in qualche modo si fanno pubblicità da loro stessi, mostrandosi nella loro studiata disposizione e sullo sfondo di cromolitografie che costituiscono i primi esempi di pubblicità sul punto vendita.

Un momento di fondamentale importanza della comunicazione pubblicitaria può senz’altro essere individuato nell’inaugurazione della metropolitana londinese. In questa occasione, difatti, i manifesti pubblicitari vengono collocati sulle facciate esterne dei vagoni; pochi anni prima la città era stata percorsa da "uomini-sandwich": nasce la pubblicità dinamica, che si preoccupa di andare incontro al pubblico, uscendo dalle pagine dei giornali e conquistando i mille punti della città.

E’ alle esperienze europee che guarda il farmacista Attilio Manzoni, che verso la fine del XIX secolo fonda a Milano un "ufficio di pubblicità": in Inghilterra, in Francia ed in Germania, paesi all’avanguardia del progresso industriale, sorgono e si sviluppano numerose società per la vendita degli spazi pubblicitari di giornali pubblicati da editori diversi. Charles-Louis Havas fonda la prima agenzia di stampa che, in cambio del servizio di aggiornamento fornito ai giornali, chiede inserzioni e spazi pubblicitari. Si tratta di quella che in Francia viene chiamata régie e che, importata da Manzoni in Italia attraverso la gestione degli spazi del "Corriere della Sera", del "Corriere Mercantile" e di altre pubblicazioni, assumerà successivamente la definizione di "concessionaria".

Negli Stati Uniti e in Inghilterra il fenomeno assume dimensioni colossali, favorito dalla posizione di guida che questi due paesi ricoprono nell’ambito del progresso industriale. L’abolizione dell’imposta sulla inserzioni e di quella sulla carta favorisce in Inghilterra – l’America è già incamminata su questa strada – il passaggio di molti agenti dall’attività dipendente a quella autonoma: vengono costituite delle agencies che acquistano gli spazi dagli editori e li rivendono agli inserzionisti. E’ in questo periodo, nella seconda metà dell’Ottocento, che la pubblicità anglosassone fonda le premesse del proprio successo futuro: ricordiamo il caso dell’ufficiale confederato Jeo Walter Thompson che, rimasto senza occupazione dopo la fine della guerra civile, inizia nel 1868 a vendere spazi pubblicitari. Una delle più grandi agenzie del mondo è oggi la J. Walter Thompson.

Tra figurine e manifesti: le prime immagini della pubblicità

Il problema che si delinea con chiarezza, una volta costruita una struttura relativamente salda che garantisce il meccanismo di vendita e di acquisto degli spazi pubblicitari, è quello – di fondamentale importanza – della creazione dei messaggi per l’illustrazione dei prodotti. Le prime concessionarie, oltre a vendere gli spazi, devono quindi organizzare un sistema creativo tramite il quale poter offrire al cliente un servizio completo. Allo scopo di creare i testi vengono stipendiati in genere giornalisti disoccupati o giovani scrittori in cerca di un’occupazione; nasce così la figura del copywriter, cui presto si aggiungere quella del disegnatore e dell’addetto alla tipografia. E’ in questo momento, con la creazione di un ufficio tecnico specializzato nella creazione del testo pubblicitario, che molte agenzie iniziano a caratterizzarsi come aziende di fornitura di servizi e di consulenza al cliente piuttosto che come acquirenti e venditrici di spazi pubblicitari. Questa parte del meccanismo viene difatti a collocarsi in secondo piano, almeno per quanto riguarda il mondo anglosassone dove, con il crescente prosperare del business pubblicitario, le agenzie preferiscono specializzarsi nel settore creativo, nell’acquisto e nell’organizzazione dei mezzi – cioè nella consulenza all’utente.

A differenza di quanto va accadendo in Inghilterra e negli Stati Uniti, nell’Europa continentale – e soprattutto in Italia e in Francia, che seguono un percorso abbastanza simile – le régies mantengono a lungo le due funzioni di concessionarie di spazi degli editori e di fornitrici di campagne pubblicitarie agli inserzionisti.

Quando anche in questi paesi si pone la necessità di selezionare una singola specializzazione da curare con più sollecitudine, molte concessionarie scelgono di tornare alla funzione originaria per la quale sono sorte: la vendita di spazi pubblicitari per conto dei media.

La situazione dell’industria italiana è, nello scorcio del XIX secolo, in discreta crescita; nascono in questi anni le più importanti aziende – Pirelli, Richard Ginori, Cirio – che vanno ad aggiungersi alle già saldamente radicate Ansaldo, Marzotto, Manifatture di Borgosesia; sono queste aziende, assieme ad alcune banche, a finanziare la nascita di società editrici di giornali e riviste: fra tutti valga l’esempio dell’acquisto del "Corriere della Sera" da parte della famiglia Crespi, rappresentante dell’emergente industria tessile, a Torelli-Violler che l’aveva fondato. Da una diffusione decisamente elitaria, l’editoria riesce a conquistare un pubblico sempre più vasto e interclassista soprattutto con la creazione di riviste illustrate che diventano immediatamente grandi veicoli per la pubblicità: "La Scena illustrata", "La Tribuna illustrata", "La Domenica del Corriere" nascono tutte alla fine dell’Ottocento con lo scopo di raggiungere un pubblico popolare.

Nel frattempo si moltiplicano gli strumenti pubblicitari al di fuori dei canali dell’editoria: mentre anche in Italia approda l’uso degli "uomini-sandwich", la pubblicità diretta conquista strumenti come la romana "Guida Monaci" e la milanese "Guida Savallo", veri e propri annuari del mondo produttivo, precursori della tecnica del direct marketing; i primi grandi magazzini si servono abitualmente della vendita per corrispondenza; e rimane di fondamentale importanza nella storia della strategia pubblicitaria la creazione di un pubblico affezionato e fedele da parte della Liebig. Le sue figurine, distribuite agli acquirenti dei prodotti, danno vita ad un vero e proprio mercato collezionistico e, quel che più conta, diffondono il nome ed i prodotti dell’azienda con una capillarità che la pubblicità tradizionale difficilmente avrebbe potuto realizzare. Il fenomeno si ripeterà – con un successo molto più ampio - solo negli anni Trenta del Novecento, quando anche la Perugina provvederà a stampare una raccolta di figurine divenuta mitica grazie a quella, introvabile e oggetto di culto e di spasmodiche ricerche da parte di numerosi appassionati, del Feroce Saladino.

L’Ottocento è però, nella sua parte conclusiva, anche e forse soprattutto il secolo del manifesto pubblicitario. Ad una prima produzione in bianco e nero, condizionata da limiti tecnici, fa seguito – con il perfezionamento della cromolitografia –la stagione del colore: i primi manifesti litografici a colori compaiono intorno al 1850 in Francia, dove molti artisti dipingono affiches pubblicitarie: fra di essi i più noti rimangono Toulouse-Lautrec, Bonnard, Mucha, Delacroix, Daumier.

E’ il trionfo del concetto di arte "utile", che si lascia alle spalle lo snobismo culturale degli anni precedenti e propugna la necessità del raccordo e della vicinanza fra espressione artistica e società. Quelli dell’arte applicata sono i valori cui si rifanno alcune fra le più significative correnti artistiche a cavallo fra Otto e Novecento: il gruppo francese della "Revue Blanche", gli inglesi del movimento "Arts and Crafts", gli austriaci iniziatori della Secessione, i tedeschi animatori dello "Jugendstil"; tutti quegli artisti che si è soliti, cioè, indicare con il termine collettivo "liberty" e che sostenevano in definitiva il bisogno di annullare le differenze fra l’arte per l’arte e le concrete applicazioni che l’arte poteva trovare nella vita di ogni giorno e nel campo della produzione di merci.

La produzione di manifesti subisce del resto anche l’influenza di altre importanti concezioni artistiche: dal Simbolismo al Preraffaellitismo, dal gusto per il Medioevo e per la sua cultura alla voga delle "cineserie" che tanto piacevano alla borghesia fin de siècle.

In Italia

il manifesto […] come strumento pubblicitario è tenuto a battesimo da Antonio Montorfano, dai fratelli Mele e da Giulio Ricordi;

il livello della produzione è piuttosto elevato e fra gli artisti che vi partecipano ricordiamo innanzitutto Dudovich, Metlicovitz, Terzi, Villa, Sacchetti, Malerba.

La pubblicità italiana sconta d’altra parte un sensibile ritardo economico, organizzativo ma anche culturale, nei confronti di quella francese e inglese: la sola vera tradizione nazionale, in tema di affiches, è difatti quella del manifesto per l’opera lirica, fitto di indicazioni, nomi, dettagli tecnici e certo di scarso impatto dal punto di vista dell’impaginazione, interessato a fornire informazioni piuttosto che a colpire l’immaginazione del lettore facendo sorgere in lui il desiderio di partecipare all’evento reclamizzato. Dal punto di vista delle influenze artistiche, il manifesto italiano ha oscillato a lungo fra la simbologia mitologica e la scuola pittorica naturalista, senza dimenticare le suggestioni dell'opera di Toulouse-Lautrec e degli altri maestri francesi.

Il liberty approda a pieno titolo nelle affiches italiane soltanto all’inizio del nuovo secolo, quando oramai gli altri paesi europei stavano affrancandosene dopo averne sfruttato tutte le potenzialità e le caratteristiche. Abbondano dunque le cornici floreali e le ambientazioni altoborghesi, mentre una buona parte della produzione è dedicata alla celebrazione del Progresso e delle scoperte dell’uomo: ne è un formidabile esempio il manifesto che Metlicovitz realizza per l’esposizione internazionale dedicata all’inaugurazione del traforo del Sempione del 1906: qui un Mercurio-operaio si staglia fieramente di fronte allo squarcio luminoso che segna la vittoria dell’ingegno e della fatica umana contro la resistenza della natura e delle viscere della terra; l’oscurità del tunnel alle sue spalle suggerisce il passo in avanti compiuto dal titano che ha saputo sconfiggere le tenebre e le asperità della montagna.

Il nome più famoso fra gli illustratori italiani è senza dubbio quello di Dudovich, il cui stile si delinea come una esemplare e feconda convivenza di motivi e di influenze eterogenei.

Le suggestioni più significative gli vengono dalla pittura naturalista e verista, ma anche dall’Impressionismo; non mancano certamente gli stilemi del liberty, che si traducono nella frequente riproduzione della figura femminile intesa come simbolo di bellezza, eleganza ed altezzosità. Proprio il senso della femminilità fa di Dudovich il cartellonista della Belle Epoque italiana (si vedano i manifesti per i grandi magazzini Mele e per la Rinascente), ma non imprigiona l’artista in uno stereotipo, per quanto fortunato e raffinato; dopo la prima Guerra Mondiale, lo stile di Dudovich si arricchisce dell’uso del chiaroscuro e della creazione di volumetrie plastiche, secondo i dettami delle più nuove correnti pittoriche.

Presentando i bozzetti ed i manifesti creati dall’artista per la Rinascente, Gillo Dorfles afferma l’infondatezza della concezione idealistica e crociana dell’arte come attività separata dal mondo della produzione e dell’economia:

l’opera di Dudovich può e deve essere considerata alla stregua di qualsivoglia opera pittorica della prima metà del secolo; […] il fatto d’aver realizzato la maggior parte delle sue creazioni con una precisa funzione pubblicitaria non toglie nulla alla loro originalità e alla loro qualità pittorica.

L’avventura della ricostruzione: dalla retorica fascista alla radio, dai rotocalchi a Carosello

Ci sono due modelli che nei primi decenni del [ventesimo] secolo strutturano il messaggio pubblicitario. Uno affida ad una scena la presentazione del prodotto, l’altro lo rilancia in una metafora creativa.

La prima parte del Novecento è segnata in Italia da un clima di relativo benessere: il periodo giolittiano non si ricorda soltanto per lo sviluppo dell’industria, per i progressi sociali, per il suffragio universale (ma solo maschile) e per la stabilità, ancorché di breve durata, della lira. Si tratta anche del periodo in cui la pubblicità, da attività di pochissime aziende, si allarga ad un gran numero di imprese che iniziano a capirne le enormi potenzialità espansive per i loro prodotti.

La cartellonistica si segnala per l’opera di alcuni illustratori colti, provenienti dal mondo della scenografia e dall’ esperienza di illustratori dei libri di D’Annunzio e dei classici. Ma agisce anche la spinta verso un tratto più rapido, nervoso ed essenziale: nel primo dopoguerra si celebrano le imprese dell’industria automobilistica con i segni scarni e funzionali del razionalismo: fondamentali per la diffusione di questa corrente artistica nel senso più esteso del termine si rivelano le edizioni della Triennale di Milano.

Gli anni Trenta vedono del resto sensibili contraddizioni culturali e sociali. La crisi economica del 1929 toglie potere d’acquisto ma al tempo stesso stimola l’intelligenza commerciale della piccola e media borghesia; in pubblicità la tradizione del manifesto sopravviveva con discreto successo, ma già si profila all’orizzonte un desiderio di novità che sarà interpretato appieno da Mario Sironi, visto dal fascismo come alfiere del presente ed interprete dell’anima moderna del regime.

E le contraddizioni culturali del fascismo si palesano in pieno durante la Mostra della Rivoluzione Fascista, organizzata a Roma nel 1932, nella quale si mescolano retorica del regime e Strapaese da una parte e Razionalismo e Novecentismo dall’altra.

In sostanza questo periodo vede prevalere un discorso pubblicitario infarcito di retorica (quella che deve rendere attraenti i prodotti nazionali come il Lanital, il Terital e il Maltoriso, quella che invita a partecipare alla battaglia del grano) e fortemente ingessato nelle sue strutture, anche se rimane innegabile che, forse anche in ragione dei limiti imposti dalla politica e dalle ristrettezze economiche dell’autarchia, si sviluppa un modo di comunicazione che con l’ottusità fascista ha ben poco a che spartire e che è invece diretta conseguenza della nascita di una generazione intellettuale sganciata dall’ideologia fascista, la generazione all’interno della quale spiccano i nomi di Adriano Olivetti e Lelio Basso.

La radio esordisce in Italia il 6 ottobre 1924 - e fa spazio agli annunci pubblicitari a partire dal 1926 - ma conquista una vera notorietà solo dieci anni dopo, con la trasmissione di una trasmissione parodistica de "I Tre Moschettieri" di Dumas.

I primi comunicati radiofonici, trasmessi da sedi locali, sono spesso in dialetto e non disdegnano la rima. Ben presto gli inserzionisti più accorti comprendono l’importanza strategica delle trasmissioni "offerte" (oggi si direbbe sponsorizzate): Campari lega il proprio marchio ai concerti sinfonici, Martini e Rossi all’opera lirica.

Ma sono le trasmissioni di intrattenimento leggero e quelle di varietà e di canzoni a riscuotere il gradimento maggiore del pubblico: di conseguenza anche gli inserzionisti si orientano verso questi generi, per i quali vengono proposti messaggi di tono frequentemente dimesso, casalingo, piuttosto perbenistico.

La vera grande novità del secondo dopoguerra è, in una nazione in cui si legge poco come l’Italia, l’esplosione delle pubblicazioni settimanali (i cosiddetti rotocalchi). L’accoppiamento di fotografia e colore influenza profondamente la pubblicità, che trova nella stampa periodica una collocazione ideale. Nascono in questo periodo "Oggi", "Tempo", "Lei" che nel 1936 diventa "Annabella", "Grand Hotel",

"Il Mondo", "Gente", "Intimità", "L’Espresso". Le testate che raggiungono la maggiore diffusione sono quelle dirette al pubblico femminile, che poi è anche il destinatario della maggior parte degli annunci pubblicitari.

Il rotocalco crea le premesse per un realismo fotografico che in breve tempo capovolge le vecchie tecniche di ideazione proprie del manifesto e dei geometrismi della grafica; l’utilizzo massiccio della fotografia dà l’impulso alla nascita di numerose agenzie la cui funzione principale è quella di creare archivi di immagini da fornire ai periodici oltre a richiedere la formazione professionale di fotografi specializzati in pubblicità.

Il "boom" economico, d’altro canto, è la base ideale per il proliferare di un tipo di pubblicazioni che si rivolge ad un pubblico benestante o che al benessere aspira, benissimo disposto a farsi affascinare da una pubblicità elegante e patinata, accattivante e suggestiva. Quello stesso pubblico che, reduce dagli anni di difficoltà e di ristrettezze della guerra, tributerà una accoglienza entusiastica al nuovo mezzo di comunicazione, vero mass media interclassista: la televisione.

La pubblicità dei primi anni coincide, per la televisione italiana, con "Carosello". Il successo enorme che arride a questi siparietti può spiegarsi soprattutto con l’approccio narrativo alla materia, che evita la celebrazione diretta ed immediata del prodotto scegliendo invece di mettere in scena vere e proprie storie dotate di un senso e di una trama. Questa struttura, che guadagna a "Carosello" un pubblico affezionato anche grazie alla partecipazione dei volti del mondo dello spettacolo, finisce però, nel corso degli anni, per marcare negativamente una differenza con la pubblicità degli altri paesi. Mentre la durata standard di un messaggio pubblicitario televisivo va dai quaranta ai sessanta secondi, quella dei caroselli si prolunga fino al minuto e quaranta secondi: e ciò non può non rendere pesante la comunicazione, che si trova ad essere relegata e quasi dimenticata in coda alla scenetta, che peraltro non sempre ha attinenza con le caratteristiche della merce.

Sebbene i consumi siano enormemente lievitati grazie alla diffusione di "Carosello" ed alla sua funzione pedagogica di trasformatore e di modellatore del linguaggio e dei costumi degli italiani, bisogna riconoscere che gli anni del boom economico sono anche – con alcune significative eccezioni, fra le quali si segnalano le campagne create da Armando Testa - anni di relativa stagnazione creativa per l’advertising italiano; l’innovazione, l’introduzione delle tecniche del marketing sono americane.

Marketing e scienza della pubblicità

Negli anni Sessanta non si paragona più la pubblicità ad una forma d’arte: da un lato essa viene vista come una scienza, dall’altro- in maniera più pragmatica – essa è ritenuta niente altro che un metodo, un’organizzazione dei dati acquisiti dalla psicologia e dalla statistica fusi con l’attitudine creativa dei copywriters e degli art directors.

Nei nuovi metodi pubblicitari confluiscono due importanti tendenze americane: il behaviorismo – o psicologia del comportamento – e l’organizzazione fondata sul product manager, il responsabile unico del prodotto.

J. B. Watson, professore di psicologia sperimentale, abbandona nel 1920 l’insegnamento alla Johns Hopkins University per approdare con incarichi direttivi, alla Jeo Walter Thompson, dove applica le proprie teorie

studiando le motivazioni d’acquisto dei consumatori, per individuare gli stimoli che, nei messaggi di vendita, possono indurre il pubblico ad acquistare prodotti.

L’analisi motivazionale trasforma la pubblicità da tecnica di puro imbonimento in metodo scientifico di approccio al consumatore, che permette un colloquio approfondito ed efficace con il pubblico. Successivamente la psicologia del comportamento utilizza anche gli strumenti della psicanalisi e della teoria della Gestalt:

si teorizza che la pubblicità deve cercare la propria efficacia nel conoscere e sfruttare i desideri inconsci del consumatore: non si venderanno più prodotti, ma si venderà la soddisfazione dei desideri.

Mentre lo psicologo viennese Ernest Dichter fonda negli Stati Uniti l’Institute for Motivational Research allo scopo di applicare la teoria psicologica alla tecnica pubblicitaria (per inciso, è interessante notare l’importanza del fenomeno della "migrazione" di molti psicologi e psicanalisti verso i lidi dell’advertising), in Italia si sviluppano le prime ricerche di mercato - nel 1946 nasce la Doxa – e i sistemi di indagine e di rilevazione quantitative (anche con la creazione di "gruppi di riferimento") relativi al pubblico dei media.

In parallelo allo sviluppo delle teorie comportamentali e gestaltiche, il cammino della pubblicità vede il sorgere di nuove figure professionali; ma, mentre fino agli anni Quaranta queste rimangono destinate all’affinamento di particolari aspetti della promozione, adesso si ritiene che tutta la vita del prodotto debba essere affidata ad una sola persona, responsabile di tutte le sue fasi. Il product manager deve vigilare dall’inizio alla fine: dallo studio delle attese del consumatore alle ricerche sulla composizione del pubblico; dalla scelta del nome del prodotto e delle qualità da metterne in evidenza alla decisione sulla quantità da produrre, sul prezzo, sulle modalità di vendita, fino alla campagna pubblicitaria e alle azioni promozionali dirette al pubblico e ai negozianti.

Si tratta dell’applicazione pratica della teoria del marketing:

non si produce ciò che vuole l’industria, ma ciò che i consumatori vogliono, ne siano coscienti o no.

Si potrebbe dire che, risolti grazie al progresso tecnico i problemi della produzione, passano adesso in primo piano le questioni relative al consumo. Non sarà difficile, una volta accertata l’esistenza di determinati bisogni e desideri nutriti in modo palese o sotterraneo dai consumatori, adeguare ad essi le caratteristiche del prodotto.

Per analogia con la struttura fondata sulla ridefinizione del product manager, le agenzie si riorganizzano intorno all’account executive – responsabile del budget pubblicitario e rappresentante delle esigenze del cliente – che, nell’ambito di una strategia marketing oriented, diventa la figura essenziale dell’agenzia.

Gli Stati Uniti, all’avanguardia di questa impostazione, aprono la via: che è quella della valorizzazione della ricerca psicologica – attuata dal reparto media – e della pianificazione della strategia in relazione alle condizioni economiche ed al tipo di pubblico da raggiungere.

Il lavoro pubblicitario viene così sottratto all’intuizione individuale di singoli creativi e trasformato in un lavoro rigidamente organizzato e applicabile ad un mercato sempre più vasto e diversificato; il nuovo metodo si propone di amalgamare le tecniche utilizzate da migliaia di operatori del settore alle prese, in paesi e situazioni socio-culturali diversi, con problemi particolari e specifici. Se la protesta dei creativi (copywriter e art director) ha il senso di una ribellione ad una teoria che ingabbia e irreggimenta le loro capacità e la loro fantasia, rimane intatta la validità di base del sistema della ricerca psicologica – che si sostanzia nella conoscenza approfondita del mercato cui il pubblicitario si rivolge e delle strutture entro le quali egli deve operare.

Gli anni Sessanta, caratterizzati da un forte aumento dei consumi, vedono il rafforzamento della presenza in Europa delle agenzie statunitensi. In Italia è importante l’attività della Lintas, della Thompson, della Young & Rubicam, della McCann Erickson; nel contempo, si registra un vorticoso movimento di fusioni fra agenzie di diverse nazioni – l’inglese CPV acquista lo Studio Elpi, la Foot Cone & Belding acquista la maggioranza della Radar, la francese Univas entra nell’ATA – e nel breve giro degli anni 1958-1966 molti studi italiani chiudono o vengono acquistati da agenzie americane e inglesi.

Gli anni Settanta: l’audacia al potere

A causa della crisi petrolifera - scatenata dalla guerra del Kippur – e dal forte aumento dell’inflazione, l’economia mondiale dei primi anni Settanta segna fortemente il passo. I consumi diminuiscono e la pubblicità diventa una voce poco influente negli investimenti delle aziende. E’ questo il momento, in Italia, della riorganizzazione del settore delle agenzie; ne nascono di più piccole e agili che spesso si avvalgono dell’esperienza di marketing e del lavoro di gruppo fatta dai loro titolari nelle grandi agenzie internazionali, ma che ora puntano soprattutto alla creatività e alla consonanza di linguaggio con i clienti nazionali.

Gianni Muccini ha l’intuizione più chiara di questo desiderio di ritorno al tricolore pubblicitario e nel 1972 fonda l’agenzia che chiama programmaticamente Italia, con Emanuele Pirella direttore creativo: sarà l’agenzia delle provocazioni ("Chi mi ama mi segua" stampato sul sedere dei jeans Jesus, nella campagna stampa e nei manifesti del 1973) e delle campagne intelligenti, come quella per il rilancio di "Panorama", che riprende la moda politica e giovanilistica dei "tatzebao", invitando il pubblico a scrivere su grandi spazi bianchi).

Alla reazione dei pubblicitari italiani si affianca, nel campo pubblicitario, un desiderio di vivacità e di colore che si contrappone, se non altro nel linguaggio e nelle immagini, alla atmosfera di incertezza politica ed economica. Adeguandosi e cercando contemporaneamente di fornire suggerimenti al clima culturale che dall’Inghilterra e dall’America stava diffondendosi in tutto il mondo (la swinging London, i figli dei fiori, la rivoluzione sessuale, la protesta giovanile), la pubblicità adotta uno stile tra il floreale e lo psichedelico, diretto soprattutto al pubblico più giovane.

I messaggi sono creati in funzione della creazione di simboli nuovi pur un’utenza nuova, di una mitologia fatta di valori spensierati e al tempo stesso progressivi: e i valori su cui fare leva sono il futuro, la gioia, la speranza, la grazia, il coraggio, la liberazione. La fortunata campagna della Esso (Metti un tigre nel motore), le cui premesse erano peraltro già presenti nella cultura futurista, scatena la rincorsa delle concorrenti, per i cui messaggi si fa largo uso di concetti legati all’accelerazione, al progresso, all’aggressività (Scappa con Superissima per la benzina BP, Una ventata d’accelerazione per la Shell).

Le immagini più utilizzate sono quelle di giovani donne in tenute più o meno succinte; la tendenza si diffonde rapidamente, e presto le allusioni sessuali diventano strumento quotidiano della pubblicità, assieme ad un linguaggio sempre più ardito, ai limiti dell’inaccettabile (si veda il già ricordato slogan per i jeans Jesus, i cui manifesti vengono prontamente sequestrati per offesa al buon costume) per i canoni dell’epoca.

Se la bionda Solvi Stubing ammicca con sensualità (Chiamami Peroni, sarò la tua birra), per la grappa Fior di Vite della Ramazzotti, un invito esplicito – diretto al pubblico mashile – esorta: Una bionda nel sacco. Bionda naturale, forte e gentile. Un ‘corpo’ morbido, caldo. Un profumo sottile e stimolante. Se vuoi è tua. Se pensi di essere uomo abbastanza da farti una bionda, prova a fartene due: Fior di Vite - Grappa Stravecchia Ramazzotti. Il filone "religioso" – fiorente soprattutto nella versione aggiornata e spregiudicata dei dieci comandamenti - viene comunque sfruttato con ampiezza, sfidando la censura: gli scarponi da sci Nordica intimano: Rispetta il piede tuo. E' il comandamento di ogni buon sciatore; il brandy Stock 84 consiglia: Per gli amici, Stock 84. Tratta gli amici tuoi come te stesso. Ma una delle headlines più famose è quella che accompagna il successo di un'utilitaria: Non desiderare la Mini d'altri.

Una delle caratteristiche salienti del messaggio pubblicitario è quella di essere portatore di una contraddizione che in definitiva si rivela feconda: esso deve infatti essere originale per poter colpire l'attenzione, per distinguersi dagli slogan della concorrenza - in definitiva, per emergere nella massa di informazioni di ogni genere con cui i mass media inondano il pubblico; ma deve, al tempo stesso, essere fedele, o perlomeno mantenere un riferimento riconoscibile, alla cultura corrente e ai suoi modelli per non rischiare l'incomprensibilità del messaggio stesso.

L'esistenza di questa contraddizione spiega il frequente ricorso al meccanismo parodistico, che altro non è se non una maniera per richiamare alla mente schemi familiari e per costruire uno sfondo noto, amichevole; su di esso si potranno, poi, proiettare infinite variazioni.

Quando il target è quello corrispondente al pubblico più vasto possibile, lo stereotipo da cui partire deve di necessità essere accessibile, addirittura di massa: e gli stereotipi di massa per eccellenza sono quelli veicolati dalla televisione. Gli anni Settanta vedono dunque un ricorso massiccio all'immaginario creato e nutrito dal più invasivo fra i mass media - le saghe fantascientifiche, le avventure di James Bond - ma anche ai modelli della cultura, della politica e della cronaca più recenti - l'ecologia, la contestazione giovanile, il femminismo, il Kitsch della soddisfatta medietà borghese.

E, mentre la tendenza generale è quella di sottolineare la novità, l'aggiornamento, la perfezione tecnologica raggiunti dai prodotti - dalle lamette da barba agli pneumatici, dalle lavatrici ai reggiseni con intreccio magico - nel settore alimentare si registra una spiccata predilezione per le atmosfere rustiche e genuine dei bei tempi andati:

Tutto è naturale, genuino, niente è più industriale. Invece di vantare la perfezione, l'igiene, i controlli della perfezione industriale, accade che i prodotti alimentari e le bevande si rifacciano tutti all'artigianato, al buon tempo antico. La genuinità è nonna, come garantiscono i prodotti Doria; i biscotti Lazzaroni vengono direttamente, in carrozza, dalla fine dell'Ottocento; un amaro dichiara 'Amaro Averna, Amaro naturale' […]. Il capolavoro insuperato di questa tendenza è dato dall'invenzione del marchio Mulino Bianco per la Barilla, e dalle molte campagne per i suoi prodotti, create da Dario Landò e Sergio Mambelli: 'Mulino Bianco Barilla. Torna alla natura. Torna a mangiar sano'".

E' uno fra i tanti indizi di quello che possiamo definire come un lento, progressivo, inarrestabile ritorno a casa. Le mura domestiche diventano, a partire dalla metà degli anni Settanta, l'orizzonte principale e l'inevitabile scenario su cui si allestiscono le dinamiche del consumo.

A tale ritorno al privato si accompagna del resto un sentimento di relativo sospetto nei confronti di tanta parte dei messaggi pubblicitari, visti dall'area della contestazione come strumento principe dell'ideologia capitalista. Per quanto sostanzialmente priva di effetti importanti, la protesta contro certa pubblicità dichiaratamente maschilista e comunque poco preoccupata degli effetti sociali dei suoi slogan si diffonde all'interno del mondo dell'advertising stesso. Nel marzo 1975 nasce il "Codice di autodisciplina pubblicitaria", la cui funzione principale è quella di garantire al pubblico un'informazione corretta e particolarmente attenta all'influenza che la messaggistica pubblicitaria esercita sul pubblico.

Un rassemblement fra diverse associazioni di agenzie dà vita a "Pubblicità Progresso" il cui scopo, sulla scia della funzione svolta dall'americano Advertising Council, è

dimostrare l'utilità delle tecniche pubblicitarie al servizio delle cause di utilità sociale; e, indirettamente, […] mostrare come gli enti pubblici, dai ministeri ai comuni alle aziende pubbliche in genere, possano valersi di servizi che non sono necessariamente legati ai consumi privati.

Gli slogan del "riflusso"

Gli anni Settanta sono decisivi per il sistema televisivo italiano: la legge del 13 aprile 1975 vara una riforma dell’ente pubblico che fra l’altro destina alla RAI una porzione ben definita di pubblicità, il 5% delle trasmissioni giornaliere; una sentenza della Corte Costituzionale conferma nel 1974 la legittimità del monopolio statale nel campo delle emissioni radiofoniche e televisive, ma lo stesso anno la Corte riconosce la legittimità degli impianti di trasmissioni via cavo a carattere locale, aprendo la strada al proliferare delle emittenti private.

Seppure in una situazione assai instabile dal punto di vista legislativo, la televisione si configura come il vero spazio nell’ambito del quale, per i decenni successivi, la pubblicità mette a punto le sue strategie e i suoi linguaggi.

Con il 1980 inizia un decennio segnato dall’ideologia capitalistica e dai modelli culturali e sociali ad essa collegati:

ritornano i modelli del ‘padrone’, del ricco, dell’uomo di successo, e della donna-manager; ritornano i balli delle debuttanti e Miss Italia. […] Non si vogliono più l’eguaglianza e l’appiattimento dei salari, ma si elogiano il profitto il successo, il lusso: si diffondono le riviste che mitizzano i nuovi capitani d’industria, che insegnano a far soldi, a investire, ad ‘apparire’, mentre i libri e le pubblicazioni periodiche insegnano nuovamente il ‘bon ton’ e a ‘far salotto’.

In controtendenza rispetto alle nazioni occidentali, in Italia la presenza della pubblicità è maggiore in televisione che sulla stampa periodica. Blandita dai politici nel quadro di una sempre più esasperata lottizzazione e rivalutata dagli intellettuali come forma d’arte, essa vive una stagione di frenetica vitalità. Ai messaggi pubblicitari si chiede di essere divertenti e spettacolari, ironici e autoironici nel momento stesso in cui ne dà per scontata la fondamentale parzialità, se non addirittura la mendacità: è la sostanza di quello che Gian Paolo Fabris definisce il "nuovo patto sociale" fra consumatore e pubblicità.

La grande crescita degli investimenti pubblicitari è da attribuire in buona parte alla presenza delle televisioni private, che annulla gli effetti del razionamento imposto dal monopolio pubblico; ma altri fattori contribuiscono a questo fenomeno. Innanzitutto l’aumento del numero delle imprese, più che raddoppiato dal 1970 al 1980; la radicale trasformazione del sistema della distribuzione commerciale, che vede la diminuzione dei piccoli esercizi e la diffusione di supermercati e centri commerciali, e che induce le aziende a incentivare la comunicazione con il loro pubblico, adesso più variegato e numeroso; infine, l’importanza della marca, cresciuta anche per effetto delle trasformazioni nella rete di vendita, e l’esasperata preoccupazione per l’immagine dei prodotti.

In un mercato sempre più affollato, il creativo deve cercare soluzioni sempre nuove per differenziare i prodotti: ecco allora la continua ricerca dell’originalità e dell’effetto-sorpresa, fino a far coincidere il linguaggio dell’advertising con quello di qualunque altro tipo di spettacolo.

Sono gli anni di Jacques Séguela, fondatore della RSCG, teorico della star strategy […]; il prodotto deve vivere come una star del cinema, come il sogno di uno spettatore. La pubblicità non spiega più il vantaggio che un prodotto può dare, non sviluppa l'’unique selling proposition’’. […] La pubblicità si sta riavvicinando all’arte, al sogno, alla fantasia, al surrealismo, all’avventura.

E’ d’altronde impossibile individuare, pur nell’ambito di questa riconoscibile impostazione di base, una omogeneità dei risultati. Proprio la citata esigenza di deviare da percorsi troppo noti impone la dittatura della fantasia più incontrollata: da pianeti sconosciuti giunge il piccolo marziano della Kodak; gli elettrodomestici Ariston sono incassati in montagne e scogliere; Indiana Jones combatte con un selvaggio per il possesso di una scatoletta di tonno Palemera; la cantante Grace Jones sputa una Renault CX mentre la Opel spicca su uno sfondo di classiche colonne greche e suscita l’ammirazione dei Ciclopi.

Le influenze variano dunque dal mondo del fumetto a quello dell’arte, figurativa o meno: la compresenza degli stili è ammessa e, infine, inevitabile. Oltre all’esaltazione dell’esotismo e di una frenetica modernità, sono pur sempre presenti i buoni sentimenti di stampo tradizionalmente familiare: può valere per tutta la campagna realizzata per Barilla da Gavino Sanna che, attraverso immagini di grande cura formale, propone anch’essa un sogno, ma un sogno assolutamente quotidiano e realistico. Lo slogan – Dove c’è Barilla, c’è casa – si pone come conclusione di situazioni non certo surreali ma ordinarie, normali, exempla di bontà e calore umano. Lo spettatore è colpito da un rassicurante colpo al cuore piuttosto che da un traumatizzante pugno nello stomaco.

Si possono individuare altre tendenze, oltre alla pubblicità spettacolo e a quella dell’ideologia familiare. L’ironia, lo humour (per esempio nelle campagne create da Annamaria Testa per le caramelle Valda e Golia e il già ricordato "scherzo visivo" per l’acqua Ferrarelle), il filone musicale, con lo sfruttamento di situazioni e colonne sonore tratte soprattutto dal repertorio operistico e del melodramma come le arie verdiane per il Parmigiano Reggiano, le prime note della Carmen di Bizet per il detersivo Aiax, la Polonaise n. 3 di Chopin per il Campari.

La pubblicità fotografica – utilizzata per la stampa e per le affissioni – è dominata dal corpo femminile, quasi sempre abbondantemente scoperto; se il nudo femminile sembra infine generalmente accettato, quello maschile rimane un tabù non del tutto infranto. La libertà espressiva della quale il linguaggio pubblicitario gode dagli anni Settanta rende spesso labile il confine fra originalità creativa e volgarità: lo slogan del dopobarba Denim costituisce un significativo esempio di dubbio gusto nel suo presuntuoso affermare che è quello il profumo ideale Per l’uomo che non deve chiedere. Mai, mentre la pubblicità della Bullock fa leva in modo ancora più diretto sull’associazione forza-sicurezza-virilità, vantando le prestazioni di un antifurto con le palle.

Un filone a parte è rappresentato dalla pubblicità della moda. Gli stilisti, diventati industriali, si servono con parsimonia delle agenzie pubblicitarie e preferiscono affidarsi alla suggestione delle fotografie senza testo o accompagnate da brevissime frasi, che finiscono per identificarsi con il marchio. E’ il caso di United Colors of Benetton, copy-marchio che accompagna le fotografie spesso scioccanti – e contestate – di Oliviero Toscani, ormai di fama mondiale.

Anche le grandi agenzie, quando elaborano campagne per articoli di abbigliamento di marche prestigiose, seguono questa tendenza all’asciuttezza del testo, cui è affidato soprattutto il compito di sottolineare l’efficacia delle immagini, per le quali vengono utilizzati grandi fotografi come Steven Meisel, Peter Lindbergh, Mario Testino. Il nome della casa viene dunque valorizzato da fotografie raffinate, spesso originali, talvolta ambigue; e l’ambiguità è la scelta stilistica che più di tutte si rivela vincente, giungendo trionfalmente a dominare tutta la gamma espressiva della pubblicità di moda negli anni Novanta. Da una parte le vecchie istanze femministe vengono tradotte in immagini di donne decise e arroganti, dall’altra le figure maschili – muscolose ma sottomesse – sembrano suggerire un’interpretazione sessualmente ambigua, e cercare un adeguamento delle icone pubblicitarie alle trasformazioni sociali e culturali caratterizzate dall’affermarsi del narcisismo di massa.

La pubblicità attuale non ha dunque lo scopo esclusivo di vendere; le imprese finanziano le campagne anche per stabilire, promuovere e migliorare la propria immagine globale, per affermare una propria connotazione culturale e per creare un rapporto di vicinanza e di empatia con un pubblico considerato, oltre che potenziale bacino di acquirenti, anche - e forse soprattutto – qualificato referente socio-culturale.

 

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