SUL METODO

LA REGOLA E L’ECCEZIONE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’obiettivo di questo lavoro è quello di effettuare un’analisi generale, di effettuare una classificazione delle pubblicità per generi di consumo e target. Ho ricercato all’interno di esse le costanti, gli elementi comuni, i filoni argomentativi allo scopo di comparare la pubblicità in italiano del ventennio Sessanta-Ottanta con quella della nuova generazione, influenzata dall’inglese, nel quadro di una società tendenzialmente cosmopolita.

L’analisi linguistica è stata condotta a livello strutturale, lessematico, semantico e iconografico.

L’intenzione è quella di verificare la progressiva introduzione della lingua angloamericana nella pubblicità italiana, rilevando la presenza di costanti o regole che hanno dato origine a questo fenomeno.

In via preliminare si evidenzia come l’inasione normanna in Inghilterra abbia dato origine ad un superstrato linguistico la cui influenza è ben visibile ancor oggi nella lingua angloamericana; la si rileva soprattutto nel lessico e nella semantica. A livello morfologico, le parole di origine latina si presentano tendenzialmente polisillabiche, al contrario dei rispettivi sinonimi di origine anglosassone che sono in genere monosillabici a causa dell'influsso dell’accento protodinamico sulla lingua germanica.

Dal punto di vista semantico, i sinonimi di origine latina assumono rispetto agli anglicismi una forma e un significato più elitari, classici ed eleganti.

La Regola e l'eccezione

Per poter realizzare il proprio scopo fondamentale, quello di sollecitare le capacità recettive dell’individuo, il messaggio pubblicitario deve assumere forme insolite ed inaudite, differenti da quelle già conosciute ed assimilate dal pubblico che intende raggiungere.

L'inflazione di segnali tipica della società moderna rende necessario il ricorso a meccanismi che, mentre non possono fare a meno di riferirsi ai canoni portanti della teoria dell'informazione - pena l'indecifrabilità del messaggio - operano nei confronti di questi uno scarto, una deviazione sufficienti a caratterizzare quello stesso messaggio  come originale e imprevisto.

L'imprevedibilità si misura rispetto ad una norma costituita dall'insieme delle informazioni pubblicitarie abitualmente proposte al pubblico, e si realizza nel momento in cui, pur superando e discostandosi dalla soglia normativa, il messaggio mantiene un frame di riconoscibilità che permette al destinatario di ricondurlo entro l'alveo di modelli culturali noti e familiari. Lo scarto rispetto alla regola, insomma, ha la necessità di una regola da eludere. Essa è in genere costituita dalle modalità verbali e visive adottate dai modelli culturali più recenti e all'avanguardia: saranno quindi da assimilare e rielaborare le forme più nuove di conoscenza, i movimenti culturali più aggiornati, gli episodi più significativi della vita sociale e politica.

Basterà qui accennare alle assunzioni, ai ricalchi, ai richiami di moduli per esempio antropologici, psicanalitici, strutturalisti, interdisciplinari, emergenti in certe tematiche vuoi di palpitante attualità, vuoi addirittura di cronaca in corso: l'ecologia, la contestazione, l'happening, […] il femminismo, il Kitsch, il desiderio di terre lontane, […], gli echi letterari…[1].

 

Il meccanismo linguistico pubblicitario sottopone inevitabilmente tali modelli ad un processo di banalizzazione e addirittura di svilimento: le tematiche sociali e culturali vengono utilizzate come sfondo al fine di far risaltare il prodotto, e sistematicamente ciò avviene attraverso una volgarizzazione di tale sfondo, che diventa perfettamente funzionale all'immagine reclamizzata e perde ogni autonomia di significato. Così la carica ideologica è incanalata in precisi percorsi retorici: l'idea del ritorno alla natura serve a vendere verdure surgelate, una famiglia unita suggerisce il consumo di biscotti a colazione, la libertà sessuale fa apprezzare una certa marca di jeans.

Per quanto in maniera degradata, dunque, i messaggi della pubblicità fanno riferimento - e spesso rifanno il verso - ad un determinato contesto storico; si inscrivono cioè in una cornice culturale che, seppure ridotta a stereotipo, viene in qualche misura segnalata all'attenzione del pubblico di massa, cui - anche solo attraverso ammiccamenti e suggestioni - vengono proposti molti fra i segni culturali più condivisi.

Alcuni studiosi, come Bettetini e Castagnotto, suggeriscono l'ipotesi di una lettura della pubblicità come "informazione economica", strumento di conoscenza vantaggioso dal punto di vista del tempo, dell'impegno e dei mezzi monetari richiesti per la decodificazione dei segnali culturali.

La pubblicità, insomma, possederebbe un valore informativo in definitiva autonomo ed a se stante - al pari di un giornale, di un libro, di un quadro - e potrebbe essere consumata in totale separatezza, senza dover invocare la presenza del prodotto, principale referente del suo messaggio.

Se poi dall'aspetto concettuale - quale informazione viene veicolata? - ci spostiamo a quello stilistico - in che modo, con quali strumenti retorici essa viene trasmessa? - ecco che la funzione di “enciclopedia popolare” svolta dalla pubblicità diventa più evidente.

Nel suo continuo ricorso ai modelli letterari ed ai parametri culturali più diffusi, essa è costretta ad operare un aggiornamento dei propri strumenti di comunicazione: per questo il suo linguaggio svolge un ruolo, sia pure indiretto, di divulgazione. Un'opera di diffusione, in molti casi più efficace di quella messa in atto dalla scuola dell'obbligo,

di certe condensazioni sintattico-semantiche quasi alla Ungaretti, di certe clausole pseudoquasimodiane, di certo asintattismo tipo Gruppo '63, di certi incastri linguistici simili a quelli della poesia tecnologica[2].

 

Naturalmente non sono gli stilemi originali ad essere proposti, ma un loro calco manieristico, una rappresentazione parassitaria ed a tratti grossolana che divulga formule à la manière de, il cui scopo principale non è tanto la volgarizzazione di un modello "alto" quanto la sua assimilazione immediata alle qualità di un prodotto; non tanto la circolazione di uno stile originale quanto la sua estensione tramite l'annessione ad esso di nuovi significanti.

La funzione “didattica” della pubblicità si esplica in tutta la sua completezza quando il messaggio fa riferimento all'immaginario artistico  il quale - finché rimane confinato nell'universo chiuso ed elitario delle gallerie e nei segmenti alti del consumo - si autocondanna all’isolamento da quel mercato di massa in cui, per contro, lo catapultano le strategie di marketing che ad esso fanno astuti riferimenti per pubblicizzare i prodotti più disparati. Mentre l'arte rimane appannaggio di pochi, afferma Gillo Dorfles,

il vero pasto visuale, e quindi 'culturale' dell'umanità media dei nostri giorni

 

è costituito dalle dosi massicce di

figurazioni antropomorfiche, naturalistiche, simboliche[3]

 

della pubblicità che all'arte fanno il verso.

Le modalità osservate dalla pubblicità visiva più recente offrono l'occasione di verificare la effettiva consistenza dei legami fra gli stili delle avanguardie ed i modelli iconici utilizzati per reclamizzare i prodotti. E' da rilevare, innanzitutto, che non si tratta di una dinamica a senso unico, all'interno della quale i pubblicitari assimilano e riutilizzano i linguaggi artistici ponendosi in qualche misura in un contesto passivo e parassitario; al contrario, si verifica a volte il percorso inverso, per cui l'artista assume il punto di vista ed il lessico del pubblicitario per condurre il proprio discorso. L'esempio più importante di questo invertirsi delle posizioni è costituito dal movimento della pop art, deliberatamente soggetta all'influsso della figurazione e del linguaggio della réclame: bisogna comunque sottolineare che in questo caso il repêchage delle icone pubblicitarie è da inquadrare nel contesto di un tentativo culto di recuperare almeno in parte il patrimonio figurativo in precedenza assimilato da certa cartellonistica di alto livello, che aveva a sua volta risentito di una forte impostazione artistica.

La connessione fra movimenti artistici d'avanguardia e pubblicità visiva diventa sociologicamente e culturalmente rilevante, dunque, soltanto a patto che la si collochi nel contesto più ampio della diffusione di stilemi e di linguaggi, non più destinati ad un ristretto culto di forme inedite e a un tempo leggibili; in tal senso, più che l'immediato e superficiale richiamo a certi tratti di un'opera d'arte, risultano significative le analogie meno apparenti e spiccate.

Piuttosto che l’utilizzo di richiami inconfondibili ed ormai universalmente accettati, quali possono essere i riferimenti allo stile di un determinato artista (i “colli lunghi” di Modigliani, le donne tahitiane di Gauguin, gli scenari onirici di Dalì e così via) assumono significato i richiami a codici artistici complessivi: in simili casi, l’opera di mediazione e di divulgazione artistica da parte della pubblicità presso il vasto pubblico assume maggiore pregnanza.

Stiamo assistendo […] all’assunzione, alla rielaborazione, alla riproposizione su vasta scala ad esempio del fotodinamismo di ascendenza futurista, del fotomontaggio di matrice dadaista, dell’impaginazione onirica presa a modello dai surrealisti, […] della gestualità tipica dell’action painting, […] del gigantismo rutilante rimeditato dalla cartellonistica dopo la scottante lezione della pop art[4].

 

Se le modalità delle avanguardie artistiche sono dunque

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ormai a pieno titolo parte del codice iconico della pubblicità, e di conseguenza patrimonio del vocabolario quotidiano del grande pubblico

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– che di quel codice è il destinatario per eccellenza – si presenta, impellente, la necessità di un continuo aggiornamento di tale vocabolario. La carica di innovazione attinta dal catalogo delle avanguardie novecentesche va rapidamente esaurendosi: la pubblicità la consuma a ritmi frenetici, ed il meccanismo di rimeditazione delle scoperte artistiche rivela i propri limiti nel momento in cui il processo di rielaborazione procede più rapidamente del processo creativo e si trova spesso a precederlo.

Si assiste perciò all’utilizzo del meccanismo del ricalco di operazioni artistiche tuttora in corso e non ancora passate al vaglio della consacrazione critica, in un movimento perennemente in avanti che sembra prefigurare una progressiva coincidenza almeno cronologica tra i linguaggi della comunicazione di massa e della comunicazione d’élite.

Un sintetico percorso all’interno di quella che possiamo orami definire storia della pubblicità rivela che questa metodologia della comunicazione utilizza con dovizia e sapienza gli strumenti della retorica: nel messaggio pubblicitario

tutti i codici coinvolti vengono usati in modo marcato, in direzione di una ipersignificazione che forza i limiti e gli usi consueti di ciascuno di essi[5].

 

La pubblicità, muovendosi a tutto campo nell’ambito della connotazione – del codice, cioè, all’interno del quale un segno si carica, attraverso meccanismi di slittamento e di trasformazione metaforica, di significati ulteriori, di valori più ampi e inattesi - si serve difatti di tutti i registri, di tutti gli stili e di tutti i generi linguistici e iconici disponibili.

La pubblicità si configura dunque come sistema di produzione linguistica e come meccanismo di  costante attribuzione di significato: la sua cifra distintiva è quella di porsi come linguaggio all’interno del quale non si dà mai un “grado zero” della significazione, una denotazione allo stato puro.



[1] PIGNOTTI 1989, p. 366.  

[2] PIGNOTTI 1989, p. 367.

[3] DORFLES 1985.

[4] PIGNOTTI 1989, p. 369.

[5] BUSSI PARMIGGIANI 1988, p. 31.